“Ci alziamo tutte le mattine alle tre per andare con mezz’ora di barca a Lisca Bianca. Ho con me ventimila metri di negativo e pochi amici: Monica Vitti, il direttore della fotografia, il fonico e lo scenografo. I soli pronti a seguirmi con qualsiasi mare, contro qualsiasi ostacolo materiale e morale, per non fermare il film nel quale solo noi crediamo”. A raccontare le avventure di L’avventura è il suo regista, Michelangelo Antonioni, durante le riprese nell’autunno 1959 sull’isola di Panarea.

Abbandonate le biciclette di De Sica e Zavattini, il cineasta ferrarese salpa a bordo di un piroscafo con in tasca un “neorealismo interiore” verso “l’isola che c’è”, chiedendole di dialogare ed entrare in conflitto con i suoi personaggi. Panarea è la prima attrice di un set capriccioso e difficile, dove la troupe di allora ha portato con sé le cicatrici di mare e burrasche per tutto il periodo della lavorazione. “L’isola”, questo doveva essere il titolo provvisorio del primo capitolo della cosiddetta “trilogia esistenziale”, obbliga all’attesa e all’immobilità durante le riprese, diventando il luogo dell’essenza statica per definizione, quasi a suggerire la carica emotiva ai suoi villeggianti impegnati in questo film amaro, spesso doloroso, ma definito da oltre trenta registi “il più bello che sia mai stato presentato a un festival”.

Claudia (Monica Vitti), Anna (Lea Massari) e Sandro (Gabriele Ferzetti) sono i personaggi dominati dalle avversità naturali di un Sud vero e sottosviluppato messo a contrasto con la noia del benessere, ascoltano con gli occhi le pietre nude dell’isola che diventano parole. Poi, Anna scompare misteriosamente, come le trombe marine che impennano all’improvviso sul mare delle Eolie per poi dissolversi “tagliate” da un antico rito di preghiera riservato ai pescatori e passando il proprio vuoto interiore a Claudia.

“Pochi giorni fa all'idea che Anna fosse morta, mi sentivo morire anch'io. Adesso non piango nemmeno. Ho paura che sia viva. Tutto sta diventando maledettamente facile, persino privarsi di un dolore”, dice Claudia, la donna portata sullo schermo da Monica Vitti che in questa pellicola conquista l’impero dell’incomunicabilità di Antonioni, diventando regina dell’alienazione. Monica/Claudia sa essere paesaggio; il suo sguardo, amplificato e sospeso nel tempo dalla fotografia in bianco e nero di Aldo Scavarda, restituisce allo spettatore l’amarezza secondo la quale dietro ogni grandezza (il mare immenso delle Eolie, il barocco di Noto, l’Etna vista da Taormina) si nasconde un profondo vuoto e si contagia di “un’assenza più acuta presenza” (per citare Bertolucci padre), quella dei sentimenti.

Attoniti e intimoriti dal conoscersi per paura di perdersi, L’avventura è un film che comunica attraverso le sue immagini, dove le parole possono essere soltanto dei rumori, spiega Tonino Guerra (chiamato in causa per la sceneggiatura). Il racconto “vero” si forma nella testa dello spettatore, brutalmente chiamato a interrogarsi, rapito dal frangersi delle onde su Lisca Bianca o dal suono delle campane sulla vetta di una chiesa di paese. Ecco che l’avventura inizia anche per lui.