La berlinese ha le unghie laccate di rosso. Arrivata dai suoceri in campagna, Rosa sviene per la fatica fisica dei chilometri percorsi a piedi e al freddo e soprattutto per la fame. Lo smalto non è perfetto. La fame, la guerra, gli affanni lasciano i loro segni sul corpo, che ne porta le tracce.
Di giorno in giorno, mentre scivola sempre di più nell’abisso di una condizione in cui viene alienata da sé, Rosa dismette non solo gli abiti cittadini confezionati a livello sartoriale dalla madre ma non si dipinge più le unghie e non si arriccia più i capelli prima di andare a dormire. L’alienazione è totale perché, come sempre nella storia delle donne, Rosa, con le sue compagne assaggiatrici, viene colpita nel corpo.
Negazione perversa di un corpo di donna che nutre fin da prima della nascita, viene violato attraverso il cibo: “Tutto quello che entra deve restare dentro” è il comando che un soldato intima ad una di loro ed è questa violenza sul corpo la prima ad inscriversi nel destino delle spose o fanciulle di guerra prelevate dalle loro case per servire il Reich. I soldati delle SS bussano alla porta, chiedono documenti, intimano di salire sulla camionetta. Nessuna spiegazione.
Al quartier generale le donne vengono fatte spogliare, visitate. I loro corpi sono asserragliati dentro una inquadratura che si appoggia ai muri stretti del corridoio. Una trafila che abbiamo letto e visto in tante narrazioni della deportazione. Ma nel film di Silvio Soldini Le assaggiatrici, tratto dal romanzo di Rosella Postorino (2018), le donne sono tedesche non ebree ed entrano in una sala da pranzo che si trasforma in un incubo concentrazionario per tutte loro. Quelli preparati nel quartier generale delle SS per Adolf Hitler sono piatti raffinati, pieni di odori e sapori. Il godimento della vista si fa però disgusto e nausea quando alle assaggiatrici viene detto di aspettare un’ora sedute a tavola, in attesa di capire se il cibo ingerito sia avvelenato oppure no.
Se i corpi disciplinati delle donne sono alienati, i sensi prendono il sopravvento. Nel disgusto per un cibo appetitoso e potenzialmente nocivo, ma anche nella pulsione che in una donna è più soggetta a controllo, come quella sessuale. Le compagne di Rosa sono vergini, madri, vedove ma lei appartiene ad un’altra categoria perché è una ragazza innamorata che aspetta il ritorno dell’amato, presto disperso. E Rosa incontra la passione nel modo più inaspettato e crudele. È il paradosso di un istinto di sopravvivenza e resistenza che si fa carne viva, oltre il corpo, ma che può diventare miracolo dell’intimità, almeno una notte, almeno un’ora. La drammaturgia dei volti in primo piano, l’uno verso l’altro, ridà centralità al soggetto, alle emozioni umane.
Nel disegno delle inquadrature che definiscono la nascita e il compattarsi della sorellanza femminile, Soldini, regista da sempre attento alle emozioni e ai corpi delle donne, lavora potentemente anche ad un’altra drammaturgia: quella delle mani, di Rosa e delle sue compagne. Sono mani che si curano, che lavorano, che curano gli altri, che accarezzano, che si intrecciano. E sono mani che si sporcano, con la vita e con la storia.
Certo, lo studio e la ricerca che ci sono stati per approdare alla fotografia d’epoca di Renato Berta, ai costumi di Marina Roberti e al trucco di Esmé Sciaroni hanno fatto sì che il film non risenta dei difetti di alcune operazioni ‘in costume’, conservando quell’adesione alla verità propria di tutto il cinema di Soldini.
Ma vincenti appaiono soprattutto la scelta registica di girarlo in lingua e con attori tedeschi e il lavoro delicatissimo di casting, condiviso, come Soldini ha sottolineato durante l’anteprima al Cinema Modernissimo di Bologna, con Laura Muccino: Elisa Schlott e tutto il cast di attrici e attori meritano un’attenzione speciale, insieme al lavoro magistrale della macchina da presa che tra inquadrature a seguire e a precedere, panoramiche accerchianti dall’alto, soggettive straniate e particolari delle mani, restituisce tutto l’orrendo stupore di una caduta all’inferno dopo il quale si può solo provare a sopravvivere.
Anche perché della Storia siamo parte, sempre e comunque.