La prima metà della rassegna bolognese dedicata alla riscoperta dell’autrice nipponica Kinuyo Tanaka, ha presentato il restauro di tre sue opere. Conosciuta prevalentemente, in occidente, per la sua fruttuosa e duratura collaborazione con Mizoguchi, questo mese in cineteca viene esplorata la sua filmografia da regista. Nonostante Tanaka fosse una celeberrima diva, in patria, sin dagli anni Trenta, il suo passaggio alla regia suscitò diverse ostilità (tra cui la più feroce, curiosamente, ad opera dello stesso Mizoguchi), mentre altri importanti autori dell’epoca (Ozu, Naruse, Kinoshita) la sostennero ed elogiarono i suoi lavori.
Ciò non dovrebbe sorprendere, considerando che Tanaka fu la seconda regista donna giapponese della storia (la prima fu Tazuko Sakane, nel 1936, ma il suo Hatsu Sugata fu tanto un insuccesso commerciale quanto un’esperienza terribile per l’autrice), in un contesto produttivo e culturale svantaggioso per le donne quale fu il Giappone del dopoguerra. Da qui deriva anche l’estremo interesse suscitato dalla riscoperta delle sue opere. Esse riflettono un punto di vista alternativo e audace su tematiche scarsamente esplorate dalle più note controparti maschili. Il suo terzo film, The Eternal Breasts, è un racconto di sofferenze specificamente femminili, ispirato alla vita della poetessa Fumiko Nakajō. La storia di Fumiko, giovane donna in fuga da un matrimonio infelice, che trova conforto nella scrittura poco prima di venire stroncata da un tumore al seno, è esposta da Tanaka con pathos e audacia. Non si insiste tanto sulla qualità dell’opera della poetessa, sebbene in diversi momenti venga posto l’accento sul suo livello di istruzione non convenzionale e sulla sua fortuna presso i critici, quanto sulla capacità dei suoi tanka (forma poetica breve dalla storia millenaria) di veicolare il suo dolore.
L’intero film è strutturato imitando le due strofe contrastanti che compongono un tanka. La prima metà mostra una donna che cerca di comportarsi come si esigerebbe da una buona moglie, tentando di far funzionare un rapporto coniugale malsano, in cui il marito reprime e sminuisce lei e la sua vocazione letteraria. Conseguentemente all’ottenimento del divorzio, Fumiko dovrà subire le pressioni sociali e le privazioni personali derivanti dalla sua scelta, mettendo a nudo le contraddizioni, ancora attualissime, di una nazione in cui l’alta qualità materiale della vita si scontra con la persistenza di retaggi culturali incompatibili con la modernità. La seconda parte è dedicata al lungo decorso del tumore che finirà per ucciderla.
Inizialmente la consapevolezza della morte imminente dona a Fumiko un certo slancio vitale, nella forma di un rinnovato desiderio sessuale e di una maggiore produttività letteraria. L’inevitabile aggravarsi della malattia è invece affrontata in tutta la sua crudezza, in particolare nella descrizione delle conseguenze fisiche e psicologiche della mastectomia per cui a Fumiko viene amputato il seno. L’operazione chirurgica dà poi a Tanaka la possibilità di inquadrare un seno nudo per la prima volta nella storia del cinema giapponese (e non solo), con almeno un decennio d’anticipo sulla rivoluzione del rappresentabile portata da generi come il Pinku eiga. Il leitmotiv figurativo di scure sbarre di ferro, che imprigionano la protagonista fin dai primi minuti, incornicia al meglio un’opera visivamente sorprendente, in cui qualche eccessiva dilatazione dei tempi narrativi non inficia la sua portata emotiva.
Il tema della femminilità sofferente (o meglio, costretta alla sofferenza) ritorna anche in Girls of Dark, del 1961. Il film racconta di un centro di riabilitazione per prostitute negli anni immediatamente successivi alla chiusura forzata dei bordelli, e di Kuniko, ospite della struttura in cerca di una nuova vita. Curiosamente congruente alla situazione italiana, (la legge Merlin è di un anno successiva all’omologa giapponese, mentre il capolavoro nostrano sul tema, Adua e le compagne, è sempre del ’61) la stigmatizzazione della prostituzione non era una novità nella cinematografia nipponica. L’influenza legislativa e culturale delle forze d’occupazione statunitensi portò, nell’immediato dopoguerra, a film come il moralistico Le donne della notte di Mizoguchi e il più progressista White Beast di Naruse.
Con la sua opera, Tanaka enuncia solo marginalmente le situazioni più o meno disagiate che hanno portato i suoi personaggi a prostituirsi. Quello che le sta a cuore è piuttosto denunciare l’ipocrisia dello stigma sociale, la persecuzione del passato e i paradossi della legge. Nonostante i suoi ripetuti sforzi, infatti, Kuniko finisce sempre per ritornare nella struttura da cui è partita, vittima della discriminazione delle altre donne e della malizia maschile. Deciderà infine che l’unico futuro possibile è come dipendente della struttura stessa, costretta al nubilato e in compagnia delle altre ex prostitute, le uniche persone a lei solidali. Il tono comico di diverse sequenze contrasta con l’estrema violenza di altre, generando un amalgama surreale almeno quanto la decisione governativa di “reinserire nella società” persone che, di fatto, ne facevano parte finché quello stesso governo non ha deciso altrimenti.
Dinamiche sociali discriminatorie sono descritte anche in The Wandering Princess, primo film a colori di Tanaka, appartenente al genere josei eiga (melodramma al femminile accomunabile al woman’s film statunitense). La vita di Saga Hiro, nobildonna giapponese e cognata dell’imperatore del Manciukuò, funge da lente attraverso la quale indagare l’impossibile convivenza fra gli indigeni, prevalentemente cinesi di etnia han, e le forze d’occupazione nipponiche. Le sequenze in interno sono statiche, rigorosamente simmetriche, ed esasperano la formalità ricercata dai personaggi, sebbene i dialoghi e le situazioni ne tradiscano l’irrequietudine. Questi si muovono perlopiù lentamente, in punta di piedi e con lo sguardo basso, come timorosi di esistere, spettatori passivi di una storia che li ingloba e sovrasta. L’esercito, vero motore dell’azione, è al contrario un’entità sovrapersonale, inafferrabile e ineluttabile, capace di piegare la volontà di due popoli e frapporli.
Non va dimenticato, sebbene nel film non ve ne sia menzione, che in quegli stessi territori l’esercito giapponese torturò e fece esperimenti su migliaia di prigionieri di guerra per testare nuove armi batteriologiche, come cruentemente mostrato anche nel film Men Behind the Sun. Non sorprende dunque l’animosità con cui, dopo la disfatta nipponica, gli indigeni perseguitano i giapponesi in preda ad un cieco odio razziale. Tra questi vi è la protagonista, nuovamente vittima innocente della storia, a cui sarà costretta a sacrificare ogni affetto.