“Caro Goffredo, con questa mia lettera ti mando i miei auguri di Natale e Anno Nuovo, e ti racconto, per l’occasione, un fatto vero (vero almeno in parte, e fino a un certo punto)”.
Chissà cosa avrebbe detto la scrittrice (o scrittore, come voleva la si chiamasse) Elsa Morante, alla notizia che l’incipit di una lettera da lei scritta a Goffredo Fofi il 21 dicembre 1971, avrebbe “maldestramente e liberamente” ispirato Alice Rohrwacher a farne un mediometraggio (38 minuti) capace di arrivare nella cinquina finalista agli Oscar per il miglior cortometraggio 2023. L’Italia c’è, con Le Pupille.
“Dedico la nomination all’Oscar alle bambine cattive, che cattive non sono affatto e che sono in lotta ovunque nel mondo”, dichiara la regista toscana classe 1981. È lo sguardo dell’innocenza a colpire ancora una volta, come quello di Lazzaro in Lazzaro felice (Miglior sceneggiatura al Festival di Cannes del 2018) mentre la fusione della sfera reale e quella della fiaba, ovvero il mondo creato da Alice, è il luogo deputato allo spettatore: un luogo dove si arriva silenziosamente, come quelle onde lunghe che si spalmano sulla battigia senza far rumore e levano tutto, tranne la tenerezza.
Con la tenerezza di Serafina (Melissa Falasconi), la bambina protagonista di questa nuova messa in scena tutta al femminile, si sgretola il regime ferreo e intransigente che vige all’interno delle mura di un collegio di suore nella Bologna degli anni ’40. In piena guerra, la severa Madre Superiora interpretata da un’algida Alba Rohrwacher, cerca di amministrare i tempi duri e di carestia del convitto nei giorni dell’Avvento e lo fa insieme alle intercessioni innocenti delle “orfanelle sante”, bambine un po’ magiche soprattutto per una ricca signora sopra le righe, l’innamorata Rosa (Valeria Bruni Tedeschi), che cerca da quest’ultime le orazioni con la speranza di ritrovare l’amore di un uomo.
Il dono previsto dalla devota donna per la grazia richiesta è una spropositata zuppa inglese lavorata con ben settanta uova, che è poi l’antefatto di quest’opera prodotta da Alfonso Cuarón insieme a Carlo Cresto-Dina. “Le bambine obbedienti non possono muoversi, ma le loro pupille possono ballare la danza scatenata della libertà” si legge nelle note di regia. Quella prelibatezza di dolciume, il desiderio effimero in un momento di carestia, accende la libertà degli occhi che possono prendere, mangiare, rubare, allontanare generando una ribellione della condivisione che sa “vedere” la persona. Ci cura dall’affanno quotidiano, questo piccolo film, ci porta a tradire l’immagine della succulenta torta rossa come in un dipinto di Magritte: “Ceci n’est pas une tarte”!
E mentre il testo della lettera è nel canto (anche chi scrive non riesce a fare a meno di fischiettare il motivo musicale), il film ci ricorda che “Pupille” - dal latino pupilla - vuol dire “bambine” ed è bello che Alice Rohrwacher ci faccia scoprire che ognuno di noi ha una bambina negli occhi, quasi a non temere la cattiveria destinata a soccombere sotto le forze governate da bontà, gentilezza e generosità.