Con Le sorelle Macaluso Emma Dante firma il suo secondo lungometraggio e al contempo il secondo adattamento cinematografico da una sua opera teatrale. La drammaturga palermitana rimane qui ancorata alla sua città d’origine e nell’ambiente natio cala uno struggente coming-of-age riguardante un nucleo famigliare atipico. Katia, Lia, Pinuccia, Maria e Antonella sono cinque sorelle che conducono le loro vite nell’assenza di altri legami parentali specificati e senza nemmeno manifestare di soffrirne la mancanza. Provvedono a loro stesse allevando piccioni in una mansarda del capoluogo siciliano, un appartamento ricco di mobili, vestiti e oggetti che diventano testimonianze del loro vissuto comune. Elementi di una scrittura scenica derivante dal teatro e che l’autrice sfrutta in questo caso come segni attraverso i quali si palesano gli effetti dello scorrere del tempo.

Ed è proprio questo il tema cardine di questa amara sinfonia di dramma e ilarità: l’inesorabilità dell’incedere cronologico, che non si arresta di fronte alle difficoltà umane, ai rimpianti insanabili e all’azione opprimente della memoria che grida imperterrita il proprio dolore senza trovare pace. Mirato alla rappresentazione di questo fenomeno Le sorelle Macaluso è un film dolorosamente spietato nella sua volontà di non voler concedere alcun appiglio consolatorio. E a chi considera riprovevole il fatto che le protagoniste vengano mostrate solamente nei loro momenti di massima vulnerabilità, il racconto pare voler ribattere con tono aggressivo che la rappresentazione enfatica e reiterata del dolore può trascendere il facile manierismo ed aspirare, cose in questo caso, ad essere un’onesta e puntuale riflessione su esperienze che troppo spesso tendono ad essere represse.

L’intento non è quello di inscenare un accomodante – oltre che ordinario - apologo umanista, ma quello di descrivere l’intera vita di una famiglia inusuale per quello che è, ovvero una costante e fallimentare pretesa di controllo sulla vita stessa. Perciò basterebbe soffermarsi sull’incapacità intrinseca dell’essere umano di ammansire la tumultuosa condizione dell’essere al mondo, per rendersi conto che in quanto mostrato non esiste la macchinosa ricerca del sensazionalismo, ma invero un’acuta raffigurazione della precarietà che ci accomuna. Consapevolezza, quindi, non rassegnazione; accortezza e non pessimismo.

La strategia comunicativa attuata dalla regista prevede un racconto ellittico che si sofferma su tre fasi specifiche delle sorelle cui il titolo fa riferimento. Tre interludi appartenenti ad epoche tra le quali intercorrono decenni, che vengono qui accostate in modo da accentuare i cambiamenti avvenuti nel periodo assorbito dallo stacco ed al contempo permettere il riconoscimento degli aspetti che invece persistono all’erosione temporale. Una scelta audace quella di sintetizzare in novanta minuti un arco narrativo che si sviluppa dall’infanzia dei personaggi fino alla loro vecchiaia, ma che Emma Dante qui affronta e sostiene grazie ad una sensibilità drammaturgica fuori dal comune. Una propensione al componimento di scene in grado di assumere una valenza retroattiva, capaci di modificare ed ampliare la percezione di ciò che è stato mostrato in precedenza e non solo attraverso la naturalezza dei dialoghi, ma anche e soprattutto attraverso il rapporto con l’ambiente domestico che si evolve e deteriora parallelamente alle presenze che lo animano.

Gli spazi interni vengono così investiti di un valore che supera il simbolismo per inserirsi nel racconto come parti di un’avvolgente figura genitoriale che accudisce e protegge le sue fragili creature, salvo poi ritrovarsi a dover sopravvivere ad esse e confrontarsi con la triste quanto inevitabile realtà dell’abbandono. Nel descrivere una tale complessità di intrecci emotivi è lecito aspettarsi che il risultato finale possa apparire inferiore alla smisurata ambizione. Ma d’altro canto Le sorelle Macaluso è un diamante grezzo, formalmente imperfetto ma proprio in virtù di questo ancor più affascinante nella sua scomposta imprevedibilità. Perché la perfezione stilistica e la pregnanza tematica sono poca cosa se inserite in un discorso retorico e artificioso e allora ben vengano opere come questa che, seppur claudicanti ad uno sguardo superficiale, calibrano le loro forzature con la potenza del coraggio e della sincerità.