Le vere attrici non si impegnano nel sociale e nella politica, sostiene Fabienne: quando cominciano a parlare d’altro, vuol dire che la realtà ha vinto su di loro, dunque sul cinema. C’è un momento straordinario, sul set del film che Fabienne sta interpretando accanto a una star in ascesa (nome clamoroso: Manon Lenoir), una specie di mélo sci-fi sul rapporto tra madre e figlia: dopo vari
tentativi, riesce infine a recitare come desidera, senza imitare la vita bensì sublimarla attraverso l’ atto poetico del ripensare la realtà. Niente collirio e nessun ricordo indotto per piangere: le lacrime devono essere spontanee e calcolate. È lavoro, è vita. Magari magia. Non sarò stata una grande madre o una grande amica, confessa cosciente di convivere con i fantasmi di un passato in apparenza poco edificante, ma una buona attrice, ecco, sì.


Diva settantenne, Fabienne ha scritto un memoir di grande successo: l’ha intitolato Le verità ma sua figlia, sceneggiatrice negli States dove ha sposato un attore (“attore è una parolona”, sentenzia la madre, “è un’imitazione”), sa – o crede di sapere – che non c’è niente di vero in quel libro. La verità, d’altronde, non deve essere alla portata del pubblico: perciò Fabienne ha deciso di  revisionarla, perché la verità non interessa a nessuno, altrimenti non si andrebbe al cinema a vedere le grandi attrici che rendono grandi i film. Le grandi attrici, spiega alla nipotina, hanno nomi e cognomi che iniziano con la stessa lettera: Michèle Morgan, Danielle Darrieux, Greta Garbo, Simone Signoret. Brigitte Bardot, aggiunge l’artista: e in quell’algida smorfia di disappunto nei
confronti della protagonista di Le verità di Clozout c’è tutta Catherine Denueve, che a Le verità porta in dote l’esperienza, il carisma, la potenza, la consapevolezza di un monumento della recitazione.


Il gioco tra cinema e realtà trova nel suo corpo, nel volto che turba, incanta, ammalia da oltre mezzo secolo, la più suprema delle espressioni ma, al contempo, mette in luce la facilità del meccanismo scelto dall’autore. Alla prima prova internazionale dopo la consacrazione di Un affare di famiglia, Hirokazu Kore'eda sembra non voler rischiare molto, inserendosi nel solco di un
cinema cinefilo tanto affascinante quanto furbo nel comporre le rime tra film e vita. In questa commedia drammatica in interni, che si districa tra la bella villa di Fabienne (“ma dietro c’è una prigione”) e il set, il maestro giapponese non rinuncia all’evocazione di Sinfonia d’autunno e a simpatiche suggestioni da Viale del tramonto e intanto continua a raccontare famiglie colte in
momenti di svolta.


Per l’umanista Kore'eda, la verità è sempre un’interpretazione dettata dall’intelligenza del cuore. E il suo cinema resta pieno di grazia ma, forse avvinto dalle personalità di Deneuve e Juliette Binoche nel ruolo della figlia, suggerisce senza enfasi quella purezza che potrebbe trovare nello sguardo incantato della nipotina, preferendo le schermaglie tra le due donne alla necessaria resa dei conti e gli andirivieni in una memoria alla quale si dà sempre troppa fiducia.