A ogni film, il cinema di Steven Soderbergh si fa più astratto e inafferrabile, indefinibile per come l’astrattezza è alimentata da una piattezza visiva volta a svelare il mezzo cinematografico, sia con la rottura della quarta parete, alla maniera dell’ultimo Almodóvar, sia con la veste posticcia della povertà stilistica. Soderbergh, come Woody Allen, sforna ormai un film all’anno, e ha persino annunciato l’imminente seguito del suo folgorante esordio di trent’anni fa, Sesso, bugie e videotape, la cui sceneggiatura aspetta solo di essere messa in scena.

Molto più reticente di lui è la Alice Hughes (Meryl Streep) di Lasciali parlare, il suo ultimo film, diretto nel 2019 su sceneggiatura della scrittrice statunitense Deborah Eisenberg, settantacinquenne al suo primo testo cinematografico, e disponibile ora su piattaforma. Anche Alice fa la scrittrice, vive a New York e ha vinto un Pulitzer con il libro che il pubblico più ama e lei più odia, per il cui possibile seguito -ecco un altro seguito- editore e agente sono disposti a coprire le spese di una traversata in nave dagli Stati Uniti all’Inghilterra per lei e tre suoi ospiti, affinché possa ricevere un ambito premio letterario.

Se in lei e nelle due compagne di viaggio è naturale immaginare la Eisenberg e sue esperienze di vita vissuta, nei caratteri maschili ci si diverte a vedere proiezioni di Soderbergh, che approfitta di un testo altrui per fare capolino come mestierante del cinema. Le compagne di Alice, personaggi che prendono corpo e vita da lei, sono due amiche che non vede da decenni: Susan, garbato avvocato di Seattle, interpretata dall’alleniana Dianne Wiest, e Roberta (Candice Bergen), spiccia commessa in un negozio di biancheria intima a Dallas, che cova da anni risentimento per Alice, ricambiata dal senso di colpa mai ammesso di quest’ultima.

Il regista si nasconde sornione, invece, dietro al giovane Tyler, badante delle tre vegliarde, segretario di viaggio per la famosa zia Alice e spia dei suoi progetti editoriali per conto della sua agente, imbucata sulla nave. Un tuttofare, benché in erba, come lo è Soderbergh sui suoi set, qui nuovamente anche direttore della fotografia e montatore dietro i familiari pseudonimi di Peter Andrews e Mary Ann Bernard. Ma lo si scorge ironicamente anche in Kelvin Kranz, l’autore di best-sellers in serie, editi a cadenza annuale, che viaggia sulla stessa nave, ed è amatissimo da Susan e Roberta quanto sconosciuto ad Alice e Tyler.

È una teoria dell’enunciazione filmica e letteraria Lasciali parlare, che percorre ripetitiva e ciarliera i corridoi del non-luogo della nave, le sue sale tipiche -da gioco, da ballo, da cena- e i suoi pontili come fossero ingranaggi di un percorso creativo in fieri che ricorda quello dei sogni di Mort nel Rifkin’s Festival di Woody Allen, spirito che aleggia sull’opera in più modi: dialoghi fitti, maschi alle prese con donne fuori dalla loro portata, musica jazz a commentare leggera gli eventi. Si parla di libri, serie tv e film, e di come questi si confondano con la vita reale alimentandola e ricevendone ispirazione. Che dire, se non questo, delle scene madri, almeno un paio, affidate alla Alice di Meryl Streep, per come raggiungono magicamente quel connubio fra parola e interpretazione cui la scrittrice ambisce più che ad ogni altra cosa?

Dove il regista si ritaglia qualcosa di personale è sì nello stile, ma anche in alcuni fotogrammi rubati in cui scappa a curiosare in cambusa, luogo in cui si parla meno e si lavora sodo, per mostrare il personale sotto cabina della nave. Cuochi, trasportatori e addetti alle pulizie, ispanici o asiatici, impegnati in lavori che non dispiacerebbero alla Fern di Nomadland. Sull’oceano fra USA e Inghilterra le élite e i subalterni, che il cheguevariano Soderbergh non può fare a meno di notare, nel deserto statunitense il singolo che sfrutta Amazon anziché esserne sfruttato, per fare benzina e spostarsi. Se ne riparla fra dieci anni, per appurare chi fra la cinese Zhao e l’americano Soderbergh ha avuto l’occhio più lungo.