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“Magic Mike – The Last Dance” e i preliminari secondo Soderbergh
Per il saluto al suo ballerino dallo sguardo dolce e dalle alterne fortune, Soderbergh torna alla regia in Magic Mike – The Last Dance, con un titolo inequivocabile: il terzo è l’ultimo, e l’attesa da subito tutta per quel ballo finale in serbo. Quando non ci sono più banconote da lanciare né premi da aggiudicarsi, si torna al vero, al teatro, al vecchio continente e alla danza primordiale, di comunicazione fra individui, che incornicia il film con l’esplicito ballo di apertura e la sua inaspettata, suggestiva eco iper-romantica in chiusura.
“No Sudden Move” e il denaro che non si muove mai
In No Sudden Move, uscito direttamente su piattaforma, Soderbergh si sposta, su sceneggiatura di Ed Solomon, nella Detroit del 1955, e accoglie nella sua abituale analisi delle origini del male economico altri temi forti: integrazione razziale, ruolo della donna, confronto fra epoche. Se per il presente dei recenti Panama Papers e Lasciali parlare aveva insistito su fotografia piatta e ritmi stranianti, il suo sguardo al gangster movie di No Sudden Move va all’opposto di quelle scelte di stile, benché sia sempre lui, come nei precedenti, a curarne la fotografia dietro lo pseudonimo di Peter Andrews (nome di suo padre) e il montaggio dietro quello di Mary Ann Bernard (nome di sua madre).
Leggere, scrivere e fare film. “Lasciali parlare” e la cambusa dell’autore
È una teoria dell’enunciazione filmica e letteraria Lasciali parlare, che percorre ripetitiva e ciarliera i corridoi del non-luogo della nave, le sue sale tipiche -da gioco, da ballo, da cena- e i suoi pontili come fossero ingranaggi di un percorso creativo in fieri che ricorda quello dei sogni di Mort nel Rifkin’s Festival di Woody Allen, spirito che aleggia sull’opera in più modi: dialoghi fitti, maschi alle prese con donne fuori dalla loro portata, musica jazz a commentare leggera gli eventi. Si parla di libri, serie tv e film, e di come questi si confondano con la vita reale alimentandola e ricevendone ispirazione.
“Panama Papers” e la guerriglia marxista di Soderbergh
Traffic, Erin Brockovich, Che, The Informant, Contagion e adesso Panama Papers. Se c’è un bolscevico a Hollywood, anticapitalista nel midollo, quello è Steven Soderbergh. Inafferrabile, sì, eclettico ed innovativo, ma sempre profondamente schierato contro il potere costituito che opprime i deboli per mantenersi e rigenerarsi. Se Contagion adottava i toni gravi e metaforici di un’epidemia sanitaria globale per la crisi economica del 2008 e per ritrarre lo sgomento di milioni di persone rimaste nottetempo senza casa o lavoro e la totale impreparazione di chi quello sgomento aveva generato, Panama Papers arriva otto anni dopo con i modi beffardi da cugino sarcastico dell’altro film, per completare con amarezza l’affresco.
“Panama Papers” di Steven Soderbergh a Venezia 2019
Da quando si è rimangiato l’annunciato ritiro dalle scene, il regista americano non è solo protagonista di una fase di estrema fertilità creativa (quattro film in più o meno tre anni) ma continua a ragionare sulla macchina-cinema con la statura di un intellettuale cinefilo capace di saltare con disinvoltura e libertà da un genere all’altro per ripensarlo e studiarlo. Qui sceglie lo spirito della “commedia didattica sulla finanza” nello stile di La grande scommessa, consapevole della necessità di dover dare una forma plastica a una storia fatta di numeri con troppi zero e società offshore, materia certo più facile da maneggiare in un reportage, come quello firmato dal Pulitzer Jake Bernstein che è all’origine della sceneggiatura scritta da Scott Z. Burns. Soderbergh riesce a dare un volto al male, servendosi delle brillanti interpretazioni di Gary Oldman e Antonio Banderas, sulfurei quanto irresistibili nei panni dei cattivi che nell’ombra speculano su tutto, comprese le disgrazie.
“La truffa dei Logan” e l’attrazione di Soderbergh per la natura umana
La truffa dei Logan è un film di frontiera, quella geografica che divide Boone County in West Virginia da Charlotte in North Carolina, e quella metaforica oltrepassata da Steven Soderbergh con il ritorno al lungometraggio quattro anni dopo il fallace addio al cinema. Una panoramica sugli orizzonti culturali dell’America di Trump ambientata in due delle roccaforti elettorali del tycoon. Gli States, patria delle grandi opportunità, ma non per tutti. Un Paese in crisi che celebra i propri veterani senza riuscire più a prendersene cura e che addobba le proprie figlie con ciglia finte e abbronzatura spray per poi mandarle a ingrossare le fila di agghiaccianti concorsi di bellezza. Le sonorità folk rock di John Denver fanno da tappeto emotivo alla lotta di Jimmy per riappropriarsi della sua dignità di padre, mentre le musiche originali composte da David Holmes – autore della colonna sonora – esaltano i ritmi serrati delle adrenaliniche sequenze d’azione.
“Unsane” al Future Film Festival 2018
Unsane stupisce per la sua capacità di rientrare in un genere senza aderire a stereotipi, consegnando allo spettatore un prodotto estremamente godibile che gioca con i fondamenti di un linguaggio senza stravolgerli. Gli sceneggiatori e Soderbergh costruiscono una trappola ipnotica, un gioco di specchi che rimbalza continuamente il pubblico tra il sano timore del persecutore e il mondo delle nevrosi private del protagonista, facendo intravedere la verità tra un’oscillazione e l’altra. Unsane costituisce un raro esempio di thriller psicologico scritto e diretto evitando i luoghi comuni del genere, un’esperienza interessante e coinvolgente che dimostra come, con un po’ di creatività, si possa instillare nuova vita in un canone oberato da produzioni mediocri.
“La truffa dei Logan” e i ribaltamenti di segno
Steven Soderbergh è un regista difficile da inquadrare. Qualsiasi tentativo di etichettare il suo lavoro per farlo aderire a categorie critiche ben delimitate, è infatti negli anni, felicemente fallito. Quasi programmaticamente Soderbergh sovverte ad ogni film, prospettive, approcci, pubblico di riferimento (ammesso che ne esista davvero uno), generi e stili, mescolando, ibridando, alternando produzioni di lusso e grandi attori di Hollywood a piccole produzioni indipendenti con attori poco conosciuti. Davanti al suo cinema, occorre perciò rimettere in discussione il proprio sguardo, accettando di farsi sorprendere, certi solo di trovarsi di fronte ad una visione di grande qualità e intelligenza.