Deve essere successo qualcosa dopo Il ragazzo d’oro, che per qualche anno è stato l’ultimo lavoro cinematografico di Pupi Avati. Punto finale di un periodo prolifico e non sempre esaltante, quel racconto più inacidito che acido, venato di un pessimismo che sfociava nel rancore, fu respinto da molti spettatori affezionati alle tante (troppe?) elegie del passato e spinse l’autore bolognese a rifugiarsi per almeno un lustro nel piccolo schermo, alla ricerca del tempo perduto (la serie Un matrimonio) e di corrispondenze contemporanee di parabole evangeliche.

Poi, circa un anno fa, una nuova svolta, con il ritorno al gotico padano da lui stesso inventato. Antico, spiazzante, fieramente anacronistico nel suo trascendere l’attualità, Il signor Diavolo è uno dei pochissimi film italiani degli ultimi decenni a mettere in campo la complessità di temi come il confronto con il male e il mistero del sacro. Con Lei mi parla ancora, nuovo capitolo di una carriera lunga mezzo secolo, girato rapidamente nell’estate della pandemia, l’ottantunenne Avati, per la prima volta alle prese con un testo altrui, ci offre uno dei suoi film più belli e sorprendenti. E la rinnovata giovinezza che rivendica una vecchiaia intesa come stagione dell’esperienza, della nostalgia, della lucidità, del disincanto, gli permette ancora una volta di misurarsi con qualcosa di inaudito e forse inagibile a molti autori più giovani. Qualcosa di fuori moda, fuori norma, fuori dalle nostre certezze.

Tratto dalle opere del farmacista e collezionista d’arte Giuseppe detto Nino Sgarbi, il padre di Vittorio ed Elisabetta che novantenne si scoprì scrittore per elaborare il lutto della scomparsa della moglie amatissima per sessantacinque anni, Lei mi parla ancora è una struggente storia di fantasmi e come tutte le storie di fantasmi è una storia d’amore. Di più: l’ambizione di Avati è quella di trattarla come la storia dell’amore più che di un amore, dove l’anima persa rimasta sulla terra combatte strenuamente per continuare a convivere con chi non c’è più. L’amore che rende immortali. È incredibile la naturalezza mai artefatta, debitrice alle suggestioni della pagina scritta ma risultato di una forte padronanza del dramma, con cui Avati costruisce un tempo che non esiste, dove convivono il qui e l’aldilà, la vita e la morte, i corpi e i fantasmi. Con un valore aggiunto, che si chiama Renato Pozzetto. Forse il ragazzo d’oro che aspettava da sempre.

Non è un mistero: per incarnare il ferrarese Nino, la prima scelta era Massimo Boldi, il comico di cui aveva già scandagliato il dramma interiore nell’ormai antico Festival. Annunciato e confermato, poche settimane prima dell’inizio delle riprese Boldi decise di dare forfait, preferendo il set di In vacanza su Marte. Ed ecco Pozzetto, che rende il film qualcosa di profondo, commovente, perfino dilaniante. Da qualche anno lontano da set, l’ottantenne maestro della comicità lunare porta in scena la fatica di un fisico acciaccato e consumato dalla vecchiaia, lo sguardo smarrito di un uomo che sta svanendo, i lampi lucenti di chi controvoglia appartiene ancora a questo universo, la saggezza di un anziano dotato della purezza d’animo di chi sta scoprendo il mondo.

È indicativo che per raccontare un personaggio devastato dal dolore, eppure consapevole di essere parte d’un noi immortale al punto di costeggiare l’altrove pur di continuare la storia, ci sia proprio Pozzetto, un commediante che per decenni ha costruito l’epica del candore. Pozzetto segue disciplinato le traiettorie dell’autore e al contempo sembra andare per una strada che conosce solo lui, capitalizzando al meglio la potenza del suo essere senex e già comico (il comico esiste solo se ha contezza della tragedia), prendendo coscienza delle parole nel momento stesso in cui le rivela ad alta voce, in un’apparente improvvisazione che fa rima con la sapienza di un professionista impareggiabile.

Che sia imbelle di fronte al lutto o restio al rivelarsi, biascicante o cristallino, disperatamente in dialogo con i fantasmi sempre presenti o paterno verso i figli (ideali) scapestrati, Pozzetto è spettacolare. Attorno a lui, tutti sembrano giovarsi di questa meravigliosa intuizione di casting, dalla moglie Stefania Sandrelli (che potenza quest’attrice inesauribile che sembra fare poco e ci dona un mondo: straziante il notturno iniziale nel letto) alla figlia Chiara Caselli (per inciso, Avati è l’unico italiano che sa valorizzarne la ruvidezza, le inquietudini, la tenebrosa fragilità) fino a Fabrizio Gifuni, il ghostwriter in crisi (Amicangelo che ne indica l’onamastica assurda, un romanzo su Carver in lavorazione, una vita sentimentale disordinata) che si rigenera alla luce dell’altrui vecchiaia per poter riconfigurare la vita stessa. Con tutti i cliché, le cadute, le pigrizie, i manierismi dell’autore bolognese (una regia a volte frettolosa, la riproposizione di un certo registro fatto di suoni e facce già masticati, la voce fuori campo che impone un côté troppo romanzesco, fraseggiare letterario compreso), Lei mi parla ancora è un grande film.