Offriamo ai lettori alcuni estratti di L'avventurosa storia del cinema italiano. Da La dolce vita C'era una volta il West. Volume terzo, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Edizioni Cineteca di Bologna, 2021. Oggi tocca a una ricostruzione orale della splendida avventura del western all'italiana.

 

Io non ero affatto un patito di western. Ero un patito di buoni film e tra i buoni film includevo alcuni western. Spesso hanno fatto degli accostamenti tra Ford e me. Ecco, io la penso così: Ford era un ottimista, mentre io sono un pessimista. I personaggi di Ford, che non mi convincevano molto anche se mi affascinavano, erano caratterizzati da questo ottimismo, del resto totalmente giustificabile in lui perché nutriva un ottimismo per tutto ciò che riguardava il futuro americano, una visione ottimistica del domani americano, che gli veniva dall’essere un immigrato irlandese, visione modificata un tantino nei suoi ultimi film tipo L’uomo che uccise Liberty Valance che, secondo me, sono i suoi più belli... […]

Replicare a questo è stata una delle cose per cui ho fatto western, e in esso ho scientemente contrabbandato la teoria affascinante dei cantastorie siciliani secondo i quali, lasciando gli eroi nel mito, si devono toccare dei problemi di attualità facendo in modo che l’antagonista di Orlando diventi anche il farmacista del paese. Loro arrivano in un luogo, s’informano sulle personalità locali in maggiore contrasto tra loro, e così quando attaccano le loro storie uno sente improvvisamente che certi problemi di Orlando e dell’antagonista sono anche quelli del farmacista che, mettiamo, non va d’accordo con il sindaco. Ecco, lo stesso tipo di contrabbando lo effettuai io con i miei western, addirittura in Giù la testa infilai un mucchio di questioni politiche, tanto è vero che poi è diventato la bandiera dell’estrema sinistra.

C’è stato un momento, dopo il fallimento della Titanus con Sodoma e Gomorra e Il gattopardo, che il cinema italiano andava vivendo una delle sue crisi ricorrenti. E allora, alla caccia di idee, i produttori hanno inventato il western. All’origine ci sono i western tedeschi, quelli tratti dai romanzi di Karl May, che è il loro Salgari. Questi film erano fatti molto spesso, anzi quasi sempre, in coproduzione con la Spagna e con l’Italia. Quindi i produttori hanno capito che potevano farne anche loro, in Italia, e grazie alla nostra esperienza nei film avventurosi e mitologici, farli altrettanto velocemente e con più grinta. Prima di Per un pugno di dollari, qualcuno ha contato venticinque western italiani, ma erano piccoli film, di cui i critici non si erano neanche accorti, uscivano direttamente in seconda o in terza visione e sembravano cosette televisive o riedizioni, film piuttosto infantili diretti da italiani o da spagnoli, sulla falsariga di quelli tedeschi che sembravano fatti per i bambini delle elementari.

Sì, c’è chi sostiene che il filone nasce dalla crisi del film mitologico, e certamente è vero che gli autori principali di western italiani siamo stati io, Tessari e Sergio Corbucci, che ci conoscevamo da tempo e avevamo lavorato su questi film, trovandoci insieme, in particolare, su Gli ultimi giorni di Pompei. Questo film doveva essere diretto da Bonnard che però era vecchio e malato, e così intervenni io e mi tirai appresso come aiuto Tessari e come regista della seconda unità Corbucci, che a quel tempo nessuno voleva più, chissà poi perché, e che io dovetti imporre. Ci divertimmo molto, ma non credo che il mitologico sia all’origine del western, credo che il western sarebbe potuto esistere benissimo anche senza il mitologico.

SERGIO LEONE

 

A mio parere, Sergio Leone e io siamo i veri responsabili della nascita del western all’italiana, forse in un certo senso io più di lui. Il western all’italiana nasce da un film che feci con Sergio verso la fine degli anni Cinquanta. Ero qui a Roma quando lui, che allora era assistente di Mario Bonnard nonché grande amico mio, mi chiamò dalla Spagna dove stavano girando un remake del famoso Gli ultimi giorni di Pompei, per dirmi di raggiungerlo subito, se ero libero, perché Bonnard, che già era uno che non andava volentieri all’estero, aveva avuto un attacco di colite e così lo aveva incaricato di dirigere e di trovare qualcuno che si prendesse in carico gli esterni. Partii immediatamente, portandomi appresso Duccio Tessari, che era il mio aiuto e che aveva scritto con me qualche sceneggiatura di film storico-mitologici. Operatore della seconda unità, ossia di quella mia, era Enzo Barboni, mentre con Leone, per gli interni, lavorava Franco Giraldi. Facemmo questo film con molto divertimento, e io vidi che in Spagna c’erano ’sti cavalli, c’erano ’ste pianure straordinarie, c’era ’sto paesaggio che assomigliava molto al Messico, al Texas, o comunque a come noi ce li immaginavamo.

Girando Gli ultimi giorni di Pompei tante volte ci trovavamo a dire: “Ma guarda un po’, qui si potrebbe fare un western straordinario!”. Al ritorno in Italia, venni a sapere che i tedeschi avevano avuto l’idea di fare dei film western tratti dai libri di un loro scrittore popolare, Karl May, il quale era un po’ come il nostro Salgari; e che anzi ne avevano fatto uno in Jugoslavia con un attore americano che stava in Italia, Lex Barker. Questo film, uscito in Germania, aveva riscosso un grande successo. Allora pensai: “Ma cavolo, se il western lo fanno addirittura i tedeschi perché non possiamo farlo noi?”. Così, siccome questa idea mi si cominciava a muovere, la proposi per primo a Turi Vasile della Ultra Film; gli dissi: “Io ho una storia, Minnesota Clay, andiamo a farlo in Spagna”. Vasile non ebbe l’aria di scartare la proposta e nel tempo che lui ci cogitava sopra, io mi recai in Jugoslavia dove una troupe americana finanziata in parte da capitali italiani, girando un western interpretato da Joseph Cotten, si era trovata negli impicci perché il regista, un americano intellettuale e mezzo pazzo, non ci capiva più niente. Ultimai quel film, mi divertii come un matto a fare muovere i cavalli, gli indiani, le pistole, e mi convinsi sempre di più che quella del western era una strada buona.

SERGIO CORBUCCI

 

Quella di Gli ultimi giorni di Pompei, girato in Spagna, è stata un’esperienza di un divertimento incredibile, perché c’erano più unità, addirittura quattro registi e quattro operatori, e la comunione fra noi era tale che si lavorava con un’allegria che ho ritrovato raramente. Bonnard era un uomo delizioso, che accettava di buon grado di essere sollevato da certe fatiche, e piazzare la macchina da presa diventava ogni volta una specie di consulto. C’erano Leone, Tessari e Corbucci... Si lavorava sedici ore al giorno senza stancarci. Tutti abbiamo poi fatto western. Credo che uno dei primi a pensarci sia stato Tessari, con Una pistola per Ringo, è stato lui l’iniziatore del genere. Non se ne parlava ancora, perché chi aveva un’idea stava zitto, se la teneva, come è d’uso nel cinema. Ma fatto il primo, sotto con gli altri... Si superavano tutti in ferocia, in consumo di sangue... Era una delle voci più grosse nei consuntivi: sangue, due milioni! E magari poi il produttore diceva di allungarlo, se c’erano pochi soldi! E coi colori veniva male: “Guarda che questo l’hai fatto mori’ di leucemia, no con una schioppettata!”.

ENZO BARBONI

 

Il più grande sceneggiatore western è Omero, perché i personaggi dell’Odissea e dell’Iliade – Agamennone, Aiace, Achille, Ettore – sono proprio gli archetipi dei cowboy di ieri, dato che sono egocentrici, autonomi, eroici, mascalzoni e il tutto a grandi tinte, a dimensioni mitiche. E allora, se vogliamo, chi è Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco? Ma Gary Cooper è Ettore!... (Il western che però mi ha forse influenzato di più è stato Il cavaliere della valle solitaria). Dopo, questa fu una chiave che sfruttò anche Tessari, forse perché Duccio iniziò il western proprio con me, era un mio aiuto, fece con me la sceneggiatura di Per un pugno di dollari e così gli inculcai questo concetto.

SERGIO LEONE

 

Non sapevo ancora bene che storia fare, ma qualche idea in testa ce l’avevo. Così partii per un sopralluogo in Spagna, vidi una casa, e cambiai completamente idea, perché mi venne in mente Ore disperate con Humphrey Bogart (nessuno di noi inventa niente, hanno inventato tutto Omero e Tolstoj e gli altri continuano soltanto a riproporre). Così rifeci Ore disperate in chiave western, e una volta scritto lo riscrissi una seconda volta in chiave completamente ironica nei confronti del western. […] Per Il ritorno di Ringo m’ispirai invece all’Odissea, smaccatamente, proprio volendo riproporre il ritorno a casa di Ulisse, con Penelope, i Proci e tutto. Omero era bravissimo a scrivere soggetti e quindi perché mai dovevo avere la pretesa di scriverne uno io? L’idea di ispirarmi all’Odissea mi venne del tutto naturale, non è che abbia dovuto tormentarmici sopra: amo molto i classici e ogni volta che c’è un pretesto per riproporli cerco di afferrarlo al volo.

DUCCIO TESSARI