Prima ancora che un capolavoro della cinematografia di metà Novecento, Les Enfants du Paradis (1945) di Marcel Carné è un miracolo produttivo. Girato in pieno svolgimento del secondo conflitto mondiale e in una Francia soggiogata dall’occupazione nazista, il film sbalordisce per la magniloquenza della mesa in scena: un impianto scenografico sontuoso e un numero considerevole di sequenze estremamente affollate che denotano lo sforzo immane per la realizzazione di un microcosmo festoso e rutilante (quello diegetico) all’interno di un mondo piagato dalla guerra (quello reale). Una discrepanza che si fa ancor più accentuata nel momento in cui ci si sofferma sulla portata dell’opera, pura meraviglia fiorita all’interno del contesto più triste del secolo.

A tal fine Carné e lo sceneggiatore Jacques Prévert fuggono dall’orrido presente per rifugiarsi nella Parigi di fine Restaurazione e crogiolarsi in un periodo di maggiore vivacità culturale. In particolar modo è il teatro ad assumere un ruolo preminente, non solo in quanto contesto attorno al quale orbitano i personaggi e che ne definisce competenze e stato sociale, ma perché attraverso di esso si esplica ciò che viene omesso dalle parole e celato dagli sguardi. Grazie ad un’improvvisazione pantomimica apprendiamo in apertura del sentimento che pervade il timido e malinconico Baptiste (Jean-Louis Barrault), e che lo lega all’attrice Garance (Arletty) in un amore taciuto ma talmente forte da poter reggere l’intera narrazione. Un’impresa tutt’altro che facile, peraltro, vista la mole considerevole di questo feuilleton audiovisivo.

Un kolossal da oltre centonovanta minuti che, diviso in due parti, abbraccia un periodo di diversi anni e si muove con disinvoltura tra una varietà di generi che spaziano dal melodramma alla commedia, arrivando finanche a contaminarsi con delle sporadiche incursioni nel thriller. Una natura multiforme che riflette le sfaccettature dei protagonisti, figure archetipiche cariche di valori contrastanti ed in perenno conflitto. Oltre alla già citata incomunicabilità tra la mestizia di Baptiste e l’aristocratico pudore di Garance, abbiamo l’ambizione sfacciata di Frédérick LamaÎtre (Pierre Brasseur), la meschinità del viscido Pierre-François Lacenaire (Marcel Herrand) e l’avidità senza freni del conte Edouard De Montray (Louis Salou). Tutte personalità solide e in grado di condizionare le scene in cui compaiono attribuendovi i propri connotati, i quali coincidono con le modulazioni del tono narrativo. Nei docili scambi tra Baptiste e Garance si innesca la tensione amorosa, con LamaÎtre sopraggiunge una distensione comica, mentre le apparizioni di Lacenaire conducono verso le cupe ombre dell’orrore.

Temi e approcci molteplici che concorrono alla costituzione di un ampio racconto sulla condizione effimera e ineffabile della felicità, perseguibile fino allo stremo ma impossibile da possedere. L’espressione vacua del mimo, che punta a divertire ironizzando sui suoi dolori, portandoli in scena come oggetto di risa per il pubblico, si fa piena sintesi di una dicotomia tra stati d’animo ampiamente scandagliati ma ancora percepiti come insondabili e astrusi. In questa sottomissione nei confronti dei sentimenti umani sta l’enorme cuore pulsante di Les Enfants du Paradis. Opera cinematografica totalizzante, ben consapevole della lezione espressionista circa l’enfatizzazione degli ambienti e anticipatrice dell’abilità felliniana di inoculare la tragedia in un racconto che assume le sembianze di una fanfara goliardica.

Moltitudine di figure istrioniche e dai lineamenti marcati, come il sudicio Jéricho di Pierre Renoir (personaggio che si nutre del disprezzo altrui, plausibile fonte di ispirazione per il “Parigi” de Il commissario Pepe di Scola), che nel momento di massima disperazione di Baptiste riversa su di lui la propria frustrazione, incurante del peso che grava su di lui in quel momento. L’eroe romantico che si lancia al disperato inseguimento dell’amata è costretto a soccombere al muro di folla festante, un carnevale (letteralmente) di volti deformati, ira, disperazione e giubilo; stati d’animo parossistici che soffocano il fioco grido di un amore bruscamente interrotto. Come a sottolineare che le passioni più intense sono anche quelle meno rumorose, nascoste dal tumulto aggressivo della massa, quasi invisibili, ma unica forma di autenticità nel caos imperante.