Ci sono simmetrie che vengono da lontano in quello che universalmente è definito uno dei capolavori del cinema horror, un “racconto di un romanzo”, come affermò lo stesso regista spiegando la sua devozione nei confronti dell’opera narrativa omonima di W. P. Blatty.

Echi che vengono da lontano, dai primi piani de La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer o dalla semplicità icastica di Ordet, dall’iconica Rosebud di Orson Welles fino ad arrivare al monolito kubrickiano. “Simmetrie all’interno di un caos diabolico”, come disse lo stesso Friedkin la cui immaginazione “senza programmi” divenne un collettore immaginifico di forme e motivi che avrebbero poi orientato gran parte della sua filmografia.

Forse questo è il modo più vero per raccontare la fenomenologia culturale di un film controverso e portatore di maledizioni, come quelle che si accanirono sul fratello di Max von Sydow o che colpirono il teatro di posa dove era stata ricostruita la casa dei MacNeil divorata dalle fiamme.

La genesi del lungometraggio è nota: W. P. Blatty, il cui libro fu influenzato da un vero esorcismo accaduto nel Maryland, fece leggere lo script a Friedkin (fresco vincitore dell’Oscar con Il braccio violento della legge) e lui rimase affascinato tanto da volere il suo Esorcista senza flashback o artifici retorici: sarebbe dovuta essere un’opera filologicamente ineccepibile, totalmente fedele al romanzo. Blatty non fu d’accordo e i primi diverbi iniziarono in realtà ben prima di quando Friedkin rifiutò di assegnargli la parte di padre Karras (che andò poi a Jason Miller).

Dopo il rifiuto di registi del calibro di Kubrick, Mike Nichols e Arthur Penn, la Warner affidò il film a Friedkin. Nel 1973 ci fu la trionfale anteprima cinematografica e l’accoglienza positiva della critica, poi arrivarono le 10 nomination all’Oscar e la vittoria di due statuette per la Miglior sceneggiatura originale e il sonoro.

L’esorcista è un film sulla potenza del fato capace di costruire legami soprannaturali raccordati da scene entrate nell’immaginario – la medaglietta di San Giuseppe che cade nel sogno di padre Karras, la stessa che padre Merrin trova in Iraq dov’è sepolto il capo del demone abissino Pazuzu – e sul surrealismo soprannaturale – la magrittiana prima ripresa di Sydow a Georgetown in un’atmosfera spettrale – che non impedì al regista di utilizzare frammenti di crudo realismo, proprio come aveva già sperimentato ne Il salario della paura.

Un’opera che è insieme classica e sperimentale, come si evince ad esempio dallo studio sulla musica e sui rumori di scena, lento crescendo che esplora le potenzialità della dodecafonia e si sposa al motivo dell’ormai celebre Tubular Bells di Mike Oldfield, andando a combinarsi a un tappeto sonoro attento a ogni dettaglio soprannaturale: il ticchettio di un orologio a scandire l’angoscia di Ellen Burstyn, il ronzio di una mosca intrappolata in un bicchiere a simulare l’insidia demoniaca in Iraq, i grugniti di maiale che emette il diavolo nel corpo della bimba, la voce da radiodramma di Mercedes McCambridge che parla attraverso Pazuzu.

Il suono, i rumori di scena, l’evoluzione musicale lenta e progressiva, che nell’idea Friedkin avrebbe dovuto imitare il crescendo secondo Stravinsky, sono in stretta simbiosi con le immagini sempre più sfumate nel sogno in cui prendono vita osmosi tra personaggi lontani e condivisioni di pensieri e sensi di colpa.

Proprio per tutti questi motivi L’esorcista può essere analizzato come un horror da camera in cui convivono stilemi classici del genere (la discesa dalle scale di Regan come un ragno, la camera spettrale in cui si consuma l’esorcismo), soluzioni vicine allo splatter “new horror” (la scena della masturbazione, i liquami emessi dall’indemoniata) e una tensione emotiva sotterranea che fa percepire nevrosi e traumi del quotidiano attraverso la metafora della possessione.

Studiando in modo approfondito l’imagery macabra alla base del suo film, Friedkin è riuscito a dare forma e sostanza al demonio-prestigiatore che nella storia antropologica aveva ben descritto Prudenzio: un’entità che manipola le creature terrene offrendo loro spettri di un traumatico rimosso, come quelli che si trovano ad affrontare padre Merrin e padre Karras nel loro parossistico esorcismo.

Il film, soprattutto nella versione uscita in sala con il suo finale ambiguo (che viene normalizzato, seguendo l’impostazione di Blatty nella nuova versione del 2000), oltre a fungere da trait d’union con il cinema complottista della New Hollywood di quegli anni, racconta il male perturbante sotto forma di infestazione virale, come ben rappresenta la celebre maschera bianca con occhi neri (ispirata a Ensor) che nella versione degli anni Duemila viene inserita ben due volte nel montaggio finale.