Le note rilassanti di I Got Lucky in the Rain accompagnano i titoli di testa di Un giorno di pioggia a New York, anticipando in modo garbatamente scoperto come troveremo Gatsby, il giovane studente di college protagonista del film, alla sua conclusione: sotto la pioggia e sotto una buona stella. E a New York, come precisa il titolo di quest’ultimo lavoro di Woody Allen.
C’è Manhattan, quindi, e c’è un ragazzo in pantaloni e giacca di velluto dal nome di battesimo che più eloquente non si potrebbe. Poi c’è Ashleigh, la sua fidanzata dell’Arizona, che lo porta in trasferta dall’università di Yardley alla natìa New York per un’intervista che un importante regista cinematografico le ha concesso in esclusiva, e c’è la prospettiva per entrambi di un romantico fine settimana nei dintorni di Central Park. Niente però va come previsto: Ashleigh perde la testa per tre uomini di fila in poche ore, il fratello confessa a Gatsby un invalidante panico pre-nuziale, lui è costretto dalle circostanze a fare visita ai genitori, lasciati volutamente ignari della sua presenza in città, e la sorella di una sua ex desta ambizioni e attese sopite dalla vita nel college di provincia.
C’è l’universo di Woody Allen in Un giorno di pioggia a New York, che conosciamo e amiamo, i suoi personaggi diversamente sofisticati e i suoi colleghi del mondo del cinema visti con occhio disincantato ed esplorati nel terzetto caratteriale composto dal regista tenebroso in crisi artistica, dallo sceneggiatore intraprendente e pratico e dal giovane attore latino sciupafemmine e re del gossip. E c’è persino una giovane attrice, Elle Fanning, che non solo ha i tratti somatici della Mariel Hemingway diciassettenne di Manhattan, ma il cui personaggio propone al fidanzato Gatsby un giro in carrozza a Central Park proprio come faceva Tracy con Ike nel leggendario film del 1979. Lascia perplessi che Allen sia tornato su quel passaggio romantico e perfetto di uno dei suoi capolavori del passato, che portava Ike a definire Tracy come “la risposta di Dio a Giobbe”, intaccandolo di nuovi significati. Perché Ashleigh, vanesia e lontana dal candore e dalla delicatezza iconici di Tracy, è associata in modo così evidente proprio a quel personaggio della filmografia di Allen? Ed è credibile che un ventenne come Gatsby se ne vada a zonzo per la città con le mani in tasca lodando fra sé e sé il livello di “ansia, ostilità e paranoia” offerto dalla grande mela ai suoi abitanti come faceva il quarantenne Ike nel celebre monologo che apriva Manhattan? Infine, perché la sceneggiatura, che fa della risata insopportabile della promessa sposa del fratello di Gatsby motivo di impotenza sessuale, trascura di dirci se il matrimonio sarà infine celebrato o meno?
Posto e accettato che la complessità dei film degli anni ’70 e ’80 di Allen sia un lontano e bellissimo ricordo, ci troviamo ad archiviare a malincuore questo Un giorno di pioggia a New York come un episodio fra i meno interessanti degli ultimi anni del nostro autore. Forse la scelta che più compromette la riuscita del film è quella della voce over a commento, affidata non ad una entità astratta e distante come in Vicky Cristina Barcelona, ma proprio al giovane Gatsby, che per ragioni anagrafiche non può assumere quel ruolo di narratore epigrafico e risolutivo di cui si sente effettivamente la mancanza. Emblematica, in questo senso, la scena della confessione della madre di Gatsby al figlio, a metà strada fra melodramma e commedia demenziale, priva di quella necessaria sintesi di significati e toni di cui l’ultimo Allen è invece maestro. Ci godiamo allora le battute sulle zecche nei parchi, sulla mononucleosi delle studentesse di college e sulle mode della sindrome di Asperger e dei quartieri cool di New York, che seguono guarda caso il prezzo degli affitti, e anche gli svariati piani sequenza che in via inedita affollano il film, ma aspettiamo Woody al prossimo capitolo, certi che sarà più incisivo di questo.