Non si fa in tempo a chiedersi quali storie vedremo al cinema dopo la pandemia e quali temi e narrazioni gli autori partoriranno per gli spettatori, che il cinema francese risponde con Tromperie - Inganno, celebrazione dell’atto stesso del racconto. Dopo averlo pensato per una quindicina d’anni, ed essere stato invitato a adattarlo proprio dall’autore del romanzo da cui è tratto, niente meno che Philip Roth, Arnaud Desplechin ha aspettato la pausa domestica imposta dal Covid per trasporre con i mezzi di finzione propri del cinema e del teatro una storia di affabulazioni e di rapporti, e della genesi di entrambi.

Una giovane donna seduta allo specchio di un camerino guarda in camera e comincia a raccontare della sua storia d’amore con uno scrittore. Come la protagonista di La voce umana di Almodóvar, anche quella di Inganno prende vita in un teatro di posa ed è senza nome, e come lei, più sorridente di lei, parla d’amore. Difficile dire se Deplechin avesse davvero in mente il cortometraggio del collega spagnolo, perché a sentir lui, in occasione dell’anteprima italiana del film alla Cineteca di Bologna il 3 aprile scorso, ha ripensato al connazionale Malle alle prese con lo Zio Vanya di Cechov, e al modo in cui finzione filmica e teatrale si fondevano naturalmente in Vanya sulla 42esima strada.

Un processo analogo prende forma in Inganno, incastro di appassionate conversazioni in interni fra Philip, scrittore ebreo di New York e cinque donne reali e immaginarie, amate, sposate, scrutate e ascoltate su differenti piani di finzione sovrapposti. La moglie, l’amante, la studentessa, la ex e l’amica: con ognuna argomenti diversi, dalla passione al matrimonio alla maternità, dal mestiere di scrittore alla politica, dal lavoro alla salute, fisica e mentale. Tutto o quasi in una stanza, sia essa quella di casa o dello studio dell’autore, di un caffè o di un ospedale, un attimo prima di tornare fuori, a vivere davvero.

Inganno è il film dell’attesa per Desplechin, un kammerspiel messo in scena trent’anni dopo la lettura del libro e dedicato, come molto cinema dell’autore, all’amore per il racconto, ai suoi inconvenienti e alle sue possibilità. Li conoscono bene Paul Dédalus, misterioso affabulatore di I miei giorni più belli, e il regista Ismael Vuillard di I fantasmi d’Ismael, con le sue donne scomparse e sognate. Ma anche il reduce Jimmy P. e le ragazze di Roubaix, una luce nell'ombra, che si confidano e confessano a un analista lui e a un commissario loro, più dimentichi della macchina da presa di quanto non lo siano i personaggi di Inganno.

In questo film di luoghi e di caratteri, la sfida stilistica dell’eliminazione degli esterni è risolta con didascalie, iridi da cinema muto, volti grandi e vicini e split screen di New York, Londra o Praga. Un mosaico di capitoletti godardiani trova i personaggi nelle diverse città dell’azione, scandito dal passaggio delle stagioni come nel cinema di Rohmer.

Perno del via vai la storia dello scrittore con la sua amante, la cui mera esistenza nel taccuino di Philip ha il potere di scatenare frustrazioni e infelicità della moglie. Se gli incontri fra lei e Philip nel suo studio ne esaltano giovinezza e splendore in aperto contrasto alla goffaggine di lui, la risoluzione che la riguarda risponde al processo per misoginia in cui lo vediamo imputato come fosse l’Humbert Humbert di Lolita: l’eloquenza di una donna, dice Inganno, è fonte continua di vita e finzione.