Presentato in concorso nella sezione “Longs Métrages” al Festival Visions du Réel che quest’anno si svolge interamente online, Il mio corpo di Michele Pennetta rivisita in chiave post-industriale e globalizzata l’ideale dell’ostrica di matrice verista. Oscar e Stanley, protagonisti del documentario, si muovono in una Sicilia aspra e ostile da cui non riescono a staccarsi. Tuttavia, rispetto all’ideale verista, al “tenace attaccamento [della] povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere”, al loro passato, alle loro tradizioni, alla “religione della famiglia” per citare Giovanni Verga, Oscar e Stanley sono già, in qualche modo, resi nomadi dalle dinamiche economiche e sociali di sfruttamento dell’economia globale.

La macchina da presa di Pennetta, arrivato al suo terzo film di ambientazione siciliana dopo ‘A iucata (2013) e Pescatore di corpi (2016), enfatizza la costrizione dei personaggi fin dalle prime inquadrature all’interno del furgone del padre-padrone di Oscar, adolescente costretto a lavorare con il fratello andando a scavare nelle discariche abusive per trovare ferro per il padre rigattiere. L’orizzonte ampio delle valli desolate contrasta con lo spazio chiuso del furgone, le fughe in bicicletta di Oscar, seguite con grande fluidità di movimento della macchina da presa, non portano comunque a nessun approdo liberatorio. Anzi, in una scena portano all’ennesima discarica abusiva, simbolo dello sfruttamento paterno e della solitudine dell’adolescente.

Allo stesso modo, l’esistenza di Stanley, immigrato africano, è confinata tra i muri del suo angusto appartamento e i lavori temporanei che un amico prete gli trova, nonostante un permesso di soggiorno che gli permetterebbe di lasciare la Sicilia. Anche quando Stanley si trova in spazi aperti e potenzialmente liberatori, come la scena in mare con l’amico Blessed, la macchina da presa bracca da vicino il suo corpo, enfatizzandone la mancanza di possibilità di movimento. Lo stesso incontro tra Oscar e Stanley avviene in modo casuale e non significativo, non come parte di un itinerario narrativo consapevole verso l’emancipazione, ma come il breve incontro di due esistenze che non riescono a trovare senso e affetto nella loro comune aspirazione verso la libertà.

Sia nel mondo di Oscar che in quello di Stanley, i legami famigliari e, in generale, il passato hanno perso qualsiasi significato. La famiglia di Oscar è caratterizzata dall’assenza dell’amore materno, sottolineata dal ritrovamento in discarica di una statua di una Madonna – un simbolo che unisce la sua esistenza a quella di Stanley, inquadrato ripetutamente mentre pulisce un’immensa chiesa vuota, senza fedeli. Anche se numerosa, la famiglia di Oscar non ha veri legami affettivi: il fratello maggiore lo lascia progressivamente solo per diventare il preferito del padre, i fratelli e le sorelle più piccoli vagano nell’appartamento senza contatti significativi, la stessa visita al cimitero per ricordare la memoria del nonno è rituale e fredda.

Nemmeno Stanley ricorda la sua famiglia d’origine e non ha legami affettivi: la macchina da presa indugia spesso sul suo corpo nudo, ma paradossalmente ne censura il desiderio, impossibile da vivere nella precarietà del presente. Il desiderio diventa solo una parodia, nel rapporto sessuale con una ragazza solo mimato ad una festa, o una condizione di struggente abbandono nel mancato ritorno a casa dell’amico Blessed.

Adattando le celebri parole di Giacomo Debenedetti sul personaggio verghiano di ’Ntoni, potremmo dire che Pennetta rovescia l’idea verista dell’esilio volontario e della generica maledizione che colpisce chi si allontana dall’ordine costituito per mostrarci le concrete dinamiche di sfruttamento postindustriale e globale che rendono Oscar e Stanley, loro malgrado, senza terra. Proprio nella loro impossibilità di scelta, i corpi di Oscar e Stanley incarnano “tutte le leggende degli sradicati [e] dei senza paese”.