La morte di Jonathan Demme non è solo l’addio di un grande autore e di una persona rispettosa, ma anche il commiato di un cinefilo che aveva saputo unire serie B off Hollywood e trasformazione del mainstream.

Quando in aula con gli studenti universitari si analizza Il silenzio degli innocenti, ci si sofferma su due aspetti. La sequenza del montaggio alternato ingannevole – quella per cui sembra che l’FBI stia sfondando la porta della casa del killer e invece sbaglia obiettivo, proprio mentre Clarice finisce intrappolata nell’antro del mostro – e la successiva scena al buio. In questo famoso pezzo di bravura, Demme ci offre il punto di osservazione del maniaco, che indossa gli occhiali a infrarossi e bracca in posizione di vantaggio la poliziotta terrorizzata e accecata. Momento di cinema straordinario, lontano dalle soggettive barocche e sanguinarie di Dario Argento, la sequenza mostrava la natura hitchockiana dei thriller di Demme (compreso il dimenticato Il segno degli Hannah), e sfidava anche le regole del genere “crime”, visto che il cattivo viene ucciso solo perché desidera godere ancora una volta della sofferenza della vittima. Così, invece di assassinarla all’istante, gioca con lei come il gatto col topo, finendone sopraffatto. 

Quando Il silenzio degli innocenti uscì, Hollywood stava sperimentando nuove vie dopo la sbornia patinata degli anni Ottanta, e l’arrivo di un film di genere così dark e controverso aprì la strada a un sottogenere di serial killer movies poi arenatosi dopo qualche anno di euforia. Demme ha spesso aperto filoni in cui si sono infilati tanti altri registi: basti pensare anche al film più apertamente di massa di Demme, Philadelphia, poi mille volte copiato nella sua rielttura del cinema di denuncia democratica, in questo caso della condizione omossessuale e dei malati di AIDS in America (senza rinunciare a un aspetto melodrammatico, che univa Douglas Sirk alla tradizione lirica italiana ed europea). Ma anche Qualcosa di travolgente  fu un film del tutto atipico per gli anni Ottanta, un tentativo di mescolanza di generi che all’epoca si potevano permettere pochi altri, tra cui John Landis e Joe Dante, entrambi venuti – come Demme – dal cinema indipendente e cormaniano.

Molti hanno identificato infatti nel magistero di Corman la formazione più importante per Demme. Essere allievi di Corman non significa solo essere automaticamente cinefili, ma anche diventare pratici. Ogni volta che Demme è finito fuori dall’orbita hollywoodiana (ed è successo sovente, sempre più spesso negli ultimi anni), non si è mai perso d’animo. Lo dimostra l’attività documentaria, l’abbondanza di progetti, la capacità di dialogare con il grande schermo, ma anche con la serialità e di recente con le nuove piattaforme dell’audiovisivo.

Probabilmente molto ha contato anche la musica. Sì, perché Demme è stato uno dei pochi registi (insieme a Martin Scorsese) a capire come filmare la musica. Certamente quella dal vivo – e i film come Stop Making Sense e quelli su/con Neil Young stanno lì a dimostrarlo – ma anche in generale la colonna sonora dei film. La musica va lasciata crescere nella sua durata, e il cineasta – specie nei rockumentary sui concerti – ha l’obbligo di trovare la posizione più rispettosa e lasciare il campo alle note. Nulla a che vedere, insomma, con la tendenza alla frammentazione del palco attraverso il montaggio, o all’approccio videoclip del cinema coevo.

In effetti, con un po’ di ritardo (eravamo in pochi a magnificare il film, come questa recensione dimostra), il suo testamento, lieve e vagamente malinconico, è Dove eravamo rimasti con Meryl Streep, che oggi chiarisce a a tutti quello che era: un autoritratto in vesti femminili di chi cerca il modo di invecchiare bene pur rimanendo un “maverick” e che per tutta la vita andrà ai matrimoni della buona società per suonare musica ruvida e rumorosa, fregandosene delle apparenze.