"Keep your eyes on the road/Your hand upon the wheel

Keep your eyes on the road/Your hand upon the wheel

Yeah, we're going to the Roadhouse

Gonna have a real/Good time"

The Doors, Roadhouse Blues, 1970

 

Jerry Schatzberg è, a torto secondo chi scrive, insieme a un piccolo gruppo di artisti a lui coevi uno dei registi più dimenticati del cinema statunitense degli anni Settanta. Si pensi anche, tra gli altri, a Bob Rafelson (autore de Il re dei giardini di Marvin e Cinque pezzi facili), Stuart Haggman (che vinse a Cannes nel 1970 con Fragole e sangue, film che Callisto Cosulich riteneva essere l’apripista di una vera e propria rivoluzione cinematografica e che girerà solo altri due film prima di passare alle serie tv) o John Boorman. E a loro si possono aggiungere molti altri registi che, nell’impeto creativo e produttivo di quella ondata fondamentale per il cinema mondiale a venire definita New Hollywood, realizzarono un solo film e scomparvero del tutto, risucchiati dal successo facile dell’opera prima o dalla difficoltà di emergere con idee proprie più che convincenti e produrre altri film.

La capacità degli autori (perché tali devono essere chiamati) menzionati sopra, e ancor di più di Schatzberg, è quella di essere totalmente fuori dalle pratiche produttive dei loro anni. Se la tendenza del New American Cinema, tramite riviste e film sperimentali, aveva aperto una breccia nella perfetta macchina produttiva americana, che stava comunque fronteggiando, senza grossi risultati, una crisi senza precedenti, il cinema della New Hollywood, nella rappresentazione (a volte estrema) del disagio non solo giovanile ma di una intera comunità, aveva avuto la potenza di una bomba atomica, spingendo le piccole case produttrici a finanziare lavori sempre più off e “rischiosi”.

Il cinema dello sconosciuto Schatzberg si pone proprio in mezzo. Così come segnale di una sorta di rivincita di quel sogno (artistico) americano tanto ambito, il suo passaggio alla macchina da presa avviene dopo un lungo (ma fondamentale) periodo svolto come fotografo di moda. Allievo di William Helburn, Schatzberg è noto soprattutto per essere stato uno dei maggiori fotografi della rivista Vogue e autore di centinaia di ritratti fotografici, soprattutto divi e protagonisti dello star system hollywoodiano e newyorkese, cinematografico e musicale. Nel solco di questa immensa produzione (che include anche lavori per album musicali: è stato infatti il fotografo prediletto di Bob Dylan che gli affiderà la copertina di Blonde on Blonde) si inserisce, quasi naturalmente, il cinema.

Che arriva dopo la visione spasmodica, da parte di Schatzberg, di tutta una produzione coeva europea, francese e italiana soprattutto. Da lì tenterà di attingere ad uno stile per crearne uno personalissimo, che poi resterà irriconoscibile per sempre. Già perché come si diceva sopra, caratteristica di questi autori “dimenticati” è la loro totale capacità ad essere irriconoscibili. Mentre molti altri esordienti dell’epoca (basti pensare a Spielberg, Coppola, Scorsese, Altman) prestissimo creano una loro sorta di poetica, registi come Schatzberg sono totalmente fuori dal coro, totalmente newhollywoodiani.

Secondo alcuni contributi contenuti nell’unico volume italiano dedicato a Schatzberg (edito nel 2006, curato da Leonardo Gandini), il fulcro della sua produzione cinematografica è racchiuso nei suoi primi tre film, girati in un pugno di anni, di cui Lo spaventapasseri, uscito 50 anni fa, è l’anello conclusivo e più potente di tutti. Mentre il primo, Mannequin-Frammenti di una donna (autofinanziato nel 1970 vendendo parte del suo studio fotografico) è figlio ancora di un fortissimo legame non solo con la Nouvelle Vague, ma soprattutto con la fotografia (interpretato da una bellissima Faye Dunaway, all’epoca compagna di vita del regista) è il secondo ad aprire una vera e propria scia autoriale: Panico a Needle Park (1971) narra delle vicissitudini di due giovani tossicodipendenti che sopravvivono nella costante ricerca di una dose nella giungla della Grande Mela.

Al suo primo ruolo da protagonista principale in un film c’è Al Pacino che regalerà (insieme a Kitty Winn che vincerà a Cannes per la migliore interpretazione femminile) una prova altamente significativa e cruda, impersonando un piccolo spacciatore alla continua ricerca di un modo di uscire dall’inferno in cui è finito. Lo spaventapasseri è il fulcro della ricerca visiva, estetica, sociale e politica di Schatzberg.

Basterebbero i primi sette minuti del film (girati senza stacchi di montaggio a camera praticamente ferma) a esprimere la grande potenza di quest’opera e alla sua importanza nel cinema coevo: una figura in lontananza scende da un pendio, il contrasto è ad impatto fortissimo, tra lo sfondo del cielo (buio per l’approssimarsi di un temporale: attenzione non solo meteorologico, ma anche narrativo e quindi metaforicamente centrale) e una piccola collina, piena di grano di un giallo accecante, dove al centro si staglia un albero senza foglie. L’uomo che scende prima sembra sicuro di sé poi compie un gesto significativo: deve oltrepassare del filo spinato e, nonostante sia di corporatura importante, non lo oltrepassa scavalcandolo, ma si infila sotto di esso, rimanendovi incastrato e poi cadendo in malo modo.

L’attore è Gene Hackman. Uno stacco e in figura media compare Al Pacino. Entrambi vagabondi, attraversano l’America alla ricerca del loro personale sogno e riscatto. Innanzitutto si deve evidenziare la capacità (probabilmente derivata dalla bravura nell’avere occhio verso un volto, un personaggio, un artista risultato del lavoro come fotografo) del regista di lavorare con i nuovi(ssimi) attori del cinema americano, portatori di un nuovo tipo di recitazione e pathos scenico. È grazie a loro che l’autenticità dei film di Schatzberg diventa (causando un gioco di parole) ancora più “realistica”. Perché il suo cinema non intende raccontare l’America nel suo splendore, ma sicuramente nel fallimento di un sogno, usando e travalicando tutti i canoni (soprattutto estetici e in buona parte narrativi) del cinema classico hollywoodiano.

E lo fa costellando il suo cinema di corpi (seguendo una certa tipicità del cinema americano: si pensi a I dimenticati di Preston Sturges) che lentamente “sfondano” lo spazio che attraversano, se ne distaccano ma allo stesso tempo vi restano incollati, come a formare uno sfondo unico (la traduzione gergale del termine “trumps” rende maggiormente il loro modo di “attraversamento”). Lo spazio si fa corpo e il corpo spazio. Il corpo visto come un “paesaggio”, come una mappa delle emozioni da prima di tutto fotografare e poi raccontare. Lavoro reso al meglio grazie anche alla collaborazione con il talentuoso direttore della fotografia Vilmos Zsigmond (che sostituisce Adam Holender dei primi due film) e che tra cura dell’inquadratura e richiami a opere d’arte, Hopper in primis, riesce quasi a mostrare la filigrana della pellicola, sporcando ma allo stesso tempo dando nitidezza estrema alle scene, sempre focalizzate tra volti e luoghi.

Come una sorta di continuo avvicinarsi tra strada e storia, tra realtà e macchina da presa. Così come in Easy Rider, Paper Moon, La rabbia giovane i protagonisti de Lo spaventapasseri attraversano l’America ridandole una nuova identità, coniugando passato e presente, interno ed esterno, campagna e città. Metropoli che è il grande personaggio aggiunto dei film schatzberghiani, sorta di enorme madre alla quale sempre ritornare, continuamente in ombra, sempre ostile, mai salvifica (anche nei finali, che lasciano sempre un estremo senso di dubbio, quasi una sorta di marchio d’autore).

E d’altronde l’ambiguità è il topos che caratterizza tutti i personaggi di Schatzberg: tra comico e tragico i suoi “nuovi” eroi americani sono indifesi di fronte all’enorme sfida della sopravvivenza, che tentano di fronteggiare cambiando continuamente direzione (il suo cinema è un cinema di dimenticati, di ultimi, di vagabondi, ubriaconi, falliti, drogati, perdenti, disadattati, sconfitti): Pacino ad es. che fin dall’inizio sembra avere un ruolo quasi da clown a metà film subisce una profonda trasformazione, così come Hackman che fa l’esatto contrario (da burbero lascia emergere una profonda e inaspettata umanità comica). Il tutto precisato da uno scambio di battute tra i due:

"Una volta eri ridicolo ma facevi paura. Adesso sei solo ridicolo" (Al Pacino)

"Forse perché sono diventato uno spaventapasseri" (Gene Hackman)

(Scarecrow, tra l’altro, ha una duplice possibile traduzione: oltre a spaventapasseri anche, figurativamente, straccione).

Dopo il successo de Lo spaventapasseri (che vince il Grand Prix a Cannes) Schatzberg accetta un lavoro d’ufficio alla Warner per redigere e correggere sceneggiature: "Il più grande errore della mia vita", dirà in una intervista. Nonostante ciò realizzerà poi film che meriterebbero maggiore attenzione e che rivelano comunque una profonda ricerca e passione per l’impianto visivo e narrativo. Si pensi al dimenticato Una cotta importante (con un’altra esordiente: Demi Moore) o Accordi sul palcoscenico, che racconta le vicissitudini di un cantante country nell’America del cambiamento post-atomico. Alcuni anni fa diverse fonti riportarono la notizia di un sequel del film, con sceneggiatura già pronta. Pacino accettò, Hackman non volle saperne. Forse meglio così: meglio lasciare al ricordo ovattato di una America.

Vittima di un’incomprensibile ostracismo da parte della critica, i film di Schatzberg sono destinati ad essere ricordati per la loro estrema capacità di raccontare, senza filtri, la morale americana. Alla veneranda età di 96 anni Schatzberg ha smesso di fare film (il suo ultimo è The Day the Ponies Come Back del 2000, inedito in Italia e, come il primo, sceneggiato da lui) ma continua a fare foto e a insegnare, ai giovani che scoprono solo ora la sua opera, l’incredibile capacità di raccontare tutti i volti (e le strade) d’America.