Il cinema di Saverio Costanzo è uno specchio scuro, un riverbero di recondite paure e desideri, un’illuminazione di volti in perturbante/trepidante attesa. Sin dal film d’esordio il cineasta romano limita il campo d’indagine e traccia demarcate zone geografico-speculative, talora rigide, spesso labili.

I titoli delle sue opere sembrano enunciazioni programmatiche che esprimono introverse e cupe riflessioni non più procrastinabili e mai condivisibili. I protagonisti di queste storie hanno sete di un’innocenza perduta che si tramuta in immaginifica ossessione foriera di un’inquieta e perenne disillusione. Anche se affrontano battaglie personali non possono evitare l’incontro (che diventa alterco) con l’Es-traneo.

Non fanno eccezione le serie televisive come L’amica geniale e In Treatment, con il tema del doppio in evidenza. Curiosamente si tratta quasi sempre di “adattamenti” a testi di affermati e diversi scrittori (Furio Monicelli, Paolo Giordano, Marco Franzoso, Elena Ferrante) tranne Finalmente l’alba che si basa su un’idea originale del regista ispirata a un noto e tragico episodio di cronaca del 1953 che narra la morte misteriosa di Wilma Montesi, giovane attrice/figurante di Cinecittà.

L’alba sembra svelare la ricomposizione di un’identità lacerata da una piaga, una Traumnovelle (con l’ombra del Novecento di Arthur Schnitzler) segnata da suggestioni oniriche e inconsci-enti ricordi, un doppio sogno con gli occhi chiusi/spalancati.

Lo sguardo di Costanzo vampirizza i suoi attori e li rende personaggi in cerca del proprio Ego e di un codice meta/multilinguistico: il professore di letteratura inglese “colto” in una terra di mezzo tra Palestina e Israele (Private), l’acerbo novizio che si scontra con la sua vocazione e con la fon-etica del silenzio (In memoria di me), un uomo e una donna che si specchiano in un’infanzia comune di emarginazione e di segreti/incomunicabili malesseri (La solitudine dei numeri primi), una coppia di innamorati separati da culture e lingue differenti, cuori affamati di purezza che non possono che ferirsi al fine di trovare una soluzione (Hungry Hearts).

L’ultimo lungometraggio conferma un’analoga struttura analitica che si concentra sulle vicende di una ragazza romana, affascinata da divi americani (spesso incomprensibili), che si ritrova dapprima comparsa in un peplum a Cinecittà e poi ospite in una villa tra ambigui individui del jet set cinematografico che proveranno a corrompere la sua virginale forma mentis.

Ad accompagnare le atmosfere sovente allucinogene, tenebrose e insane dei set, ma tese a luminosi spiragli, il commento musicale di questi film si distingue per ibride sonorità tra il noise rock, punk e note di contemporanea classicità (Mike Patton, Nicola Piovani, Massimo Martellotta). Le dissonanze sono fondamentali per sottolineare momenti di disturbante lucidità che si alternano ad altri di apparente solarità: i rapporti di potere/seduzione si contrappongono a sentimenti di dolcezza/redenzione.

Con Finalmente l’alba la sensazione è che il figlio d’arte Saverio metta un punto (ovviamente non definitivo) alla sua carriera e la dedica finale a Maurizio Costanzo non (ap)pare solo un riconoscimento/tributo al padre ma anche al versatile autore del mondo dello spettacolo che si cimentò alla regia con Melodrammore, l’unico film, che omaggiava non casualmente il cinema degli anni ’50 con Amedeo Nazzari per l’ultima volta sul grande schermo.

Dal buio al nitore si conclude un viaggio (abissale) al termine della notte che rischiara spettrali faces (da Cassavetes a Fellini) e che rimembra le parole di Passerò per Piazza di Spagna, una poesia di Pavese, morto suicida nel 1950, come un epitaffio (con echi della dolce vita): “S’aprirà una porta. Il tumulto delle strade sarà il tumulto del cuore nella luce smarrita. Sarai tu – ferma e chiara.”