Il rischio era quello della seduta psicoanalitica in pubblico, per Honey Boy, aggravata dalla fame inesausta del pubblico per storie di divi hollywoodiani baciati dalla fama sin dalla tenera età, e poi accartocciatisi su se stessi tra sanzioni penali e rehab. Già, perché il film è il racconto dell'infanzia da attore-bambino di Shia LaBeouf, da lui stesso scritto e sceneggiato, e del rapporto con un padre ex-clown decaduto, disperato e vessatorio.
Ci si potrebbe affannare sulle valenze compensatorie del film per LaBeouf, visto che la sceneggiatura è stata concepita mentre l'attore si trovava in riabilitazione, come parte della sua terapia psicologica, e vista la decisione di interpretare – peraltro ottimamente – il proprio padre. Eppure, nonostante un autobiografismo disarmante, una creazione così ombelicale non ha per fortuna portato all'autocompiacimento: Honey Boy intelligentemente sfugge la tentazione di tracciare un arco narrativo di dannazione o redenzione del protagonista rispetto al proprio passato, e mette in scena il dolore nel minimalismo di una resa dei conti quotidiana e inesausta, sia da bambini che una volta diventati adulti (Lucas Hedges, ormai specializzato in ruoli di giovani problematici, ci auguriamo non rischi il typecasting, vista la sempiterna bravura).
Affidata la regia nelle mani di una stimata documentarista, Alma Har'el, alla prima prova in ambito fiction, la tensione costante verso la verosimiglianza dei fatti di Honey Boy si esplicita in una struttura narrativa da stillicidio emotivo dell'ordinarietà. Le scene madri vengono per quanto possibile evitate e la rappresentazione della violenza fisica è sporadica, mentre a farla da padrona è un'infelicità triviale che come una coperta pesante avvolge la relazione padre-figlio. I cliché abituali del genere vengono complessizzati: non è solo il cattivo genitore che imprigiona il figlio a sé, ma nelle tortuose e comprensibili dinamiche familiari entrambi fanno di tutto per tenere saldo il distruttivo legame; un padre per molti versi irrimediabilmente mostruoso è alla fin fine anche un povero diavolo per cui provare compassione e con cui riconciliarsi, per il bene di se stessi in primis.
Har'el, per questo film vincitrice del premio come migliore regista opera prima ai Directors Guild of America Awards, si muove fra i materiali con crudezza e grazia al tempo stesso, restituendo sentori di verità con un frequente uso della camera a mano, e stilizzando le ambientazioni del motel dove padre e figlio vivono in notturne che si colorano di luci variopinte, circensi, assurgendo a vero e proprio “mondo del padre”. E se Honey Boy non arriva forse a farsi percepire come il racconto di tutti, certamente non è solo la storia di uno.