Nel maggio del 2010 la giuria del festival di Cannes 2010, presieduta da Tim Burton, conferì la Palma d’oro per il miglior film a Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti del regista thailandese Apichatpong Weerasethakul. Dieci anni dopo, orfani del festival a causa della pandemia, ci concediamo il lusso di sottoporre la pellicola (presente su Raiplay) ad una prima importante prova del tempo, e al confronto altrettanto significativo con le fortune successive delle altre opere che condivisero il concorso di quell’anno. Quali ricordiamo? Di certo lo struggente Poetry di Lee Chang-dong, il senile Another Year di Mike Leigh, ma anche il disperato Biutiful di Alejandro González Iñárritu. E Boonmee?

Boonmee è un anziano in dialisi, accudito da un giovane laotiano e raggiunto nella sua abitazione isolata per le ultime settimane di vita dalla cognata e dal nipote, quel che resta della sua famiglia. Dirige con pazienza l’azienda agricola adiacente alla sua casa, immersa nella foresta pluviale, nel ricordo della moglie, morta da tempo, e del figlio, scomparso misteriosamente anni prima. Entrambi approfittano della monca riunione di famiglia per tornare e compierla, a modo loro. Lo spirito della moglie si materializza a tavola durante una cena, e il corpo mutato del figlio, diventato uno scimmione dopo una contaminazione con le creature della foresta protagoniste delle fiabe, si aggiunge all’adunata e racconta allucinato la sua storia. La visita e la presenza di vivi, morti e svaniti è l’occasione per Boonmee di accomiatarsi da questa vita e di ricordare le sue reincarnazioni ad essa precedenti.

Tanto la trama è fantastica, non lineare, intrisa di simbologie della religione buddista per lo più inaccessibili al pubblico occidentale, rispetto al quale chi scrive non fa eccezione, tanto lo stile di Weerasethakul è semplice e sostanziale. Se davvero resta qualcosa di questo misterioso oggetto filmico che si spinge a rappresentare concetti avanzati della meditazione orientale quali il “guardarsi da fuori”, e mitologie di fusione fisica fra animali e umani, questo è la povertà con cui li comunica, artigianale e spiazzante, e i ritmi su cui quella povertà si muove, inspiegabilmente riposanti.

Nella sua alterità da mina vagante, inoltre, non è nemmeno ardito scorgere in Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti citazioni a pellicole e autori fondativi del cinema mondiale. La discutibile sequenza fuori dal tempo della principessa deforme posseduta da un pesce gatto in un fiume richiama esplicitamente L’Atalante di Jean Vigo (oltre a dispensare altrettanto esplicitamente i princìpi buddisti di interconnessione fra i fenomeni e loro vacuità: il pesce, che parla, spiega alla principessa come senza di lei non sarebbe riuscito a creare nell’acqua quel suo riflesso giovane e attraente al cui cospetto si sente ancor più brutta). Gli interni della casa di Boonmee, ripresi in lunghe ed immobili sequenze contemplative, sono figli dello stile domestico di Ozu, e la vicinanza anche fisica del maestro indiano Satyajit Ray è indubbiamente tangibile.

Dunque Boonmee supera la prova del tempo? Meglio o peggio dei tre concorrenti ricordati in apertura? Ci sentiamo di azzardare che sì, regge il decimo compleanno nonostante una complessità tematica che lo rende per lo più estraneo, ma anche che i premi maggiori ai festival internazionali dovrebbero mirare ad una sintesi fra universalità del linguaggio e accoglienza del pubblico, verso il quale Boonmee è sì gentile ma anche troppo esigente.