Quando lo scrittore e drammaturgo inglese Harold Pinter si mette alla scrivania all’inizio degli anni Sessanta per scrivere la sceneggiatura de Il servo è la prima volta che si confronta con una storia non sua da adattare per il grande schermo. L’unica sua altra esperienza come sceneggiatore è, al momento, l’adattamento di Il guardiano (1960), la tragicommedia che lo ha appena consacrato come autore teatrale su entrambe le sponde dell’Atlantico. Il regista del film sarà l’americano Joseph Losey, un po’ più vecchio di lui, ma come lui un uomo di teatro, formatosi nella vibrante New York degli anni Trenta dei fremiti del New Deal, tra critica teatrale e drammaturgia militante, luogo dell’amicizia e della collaborazione con Charles Laughton e Bertolt Brecht.

Dopo il suo esordio alla regia cinematografica nel 1948 con il fiabesco dramma antirazzista Il ragazzo con i capelli verdi Losey ha continuato a fare film – e così sarà fino alla fine – con una media di uno all’anno: questo nonostante l’auto-esilio in Inghilterra da Hollywood, per il suo mai celato marxismo, all’inizio degli anni Cinquanta. Un lusso comunque per pochi, quello di lavorare a ritmi da grandi studios nonostante il diverso panorama produttivo europeo. Non è mai stata, ovviamente, solo una questione di numeri. Losey era un esperto del linguaggio. Tra cupo realismo (Linciaggio), allucinazioni noir e thriller (La grande notte, M, Sciacalli nell’ombra, Giungla di cemento), e anche fantascienza (Hallucination), aveva maneggiato più volte la materia multiforme dell’angoscia del quotidiano, esplorata nelle sue implicazioni sociali, politiche, psicologiche, confrontandosi soprattutto con la necessaria reciprocità di eros e thanatos (Eva, del 1962, con Jeanne Moreau, è in questo senso un cult).

Che fosse merito di un simile temperamento di carattere, di disposizioni, o solo la curiosità di entrambi verso le oscure implicazioni del patto sociale, con la loro collaborazione per Il servo (1963) e poi L’incidente (1967) (che farà triade con Messaggero d’amore) avviene quel tanto sperato quanto travolgente allineamento tra scrittura e regia, tra necessità narrativa e racconto visivo. Perché nessuno dei due prevale, ma insieme concorrono allo stesso fine, vanno nella stessa direzione, costruendo scena dopo scena e immagine dopo immagine quella strana e sfuggente alterità che è l’atmosfera del film, ovvero una decisa quanto evanescente impressione dello stesso, che rimane fissa nella memoria. Un termine che, seppur scientifico, nel rimandare a una consistenza vaporosa sembra ben spiegare quel raro e inspiegabile equilibrio di elementi.

E un elemento imprescindibile di questo fortunato connubio è sicuramente Dirk Bogarde. Volto immortale di Luchino Visconti e Liliana Cavani, ne Il servo veste i panni del freddo ed eccitato manipolatore, servo e poi padrone della sua controparte borghese. Tutto ruota intorno all’attore, soprattutto la macchina da presa, che si muove costantemente tra gli spazi della villa che invece sembrano angusti, pericolosi, riempiti di oggetti pieni, di specchi e di superfici in cui i personaggi rimandano continuamente le loro figure, quasi ad esplicitarne l’intrinseca scissione. Bogarde, qui Hugo Barrett, è il domestico di un giovane ricco e inconcludente. In una sommessa ma sempre crescente manipolazione del suo superiore riesce a cambiare totalmente i rapporti di forza tra le parti e il desiderio di controllo, sinonimo di rivalsa sociale, arriva all’estremo dell’annichilimento. E pensare che Bogarde inizialmente aveva rifiutato la parte - che Losey aveva pensato a sua immagine e somiglianza già nel 1956 - preoccupato com’era delle conseguenze sulla sua stardom. Una prova sì moralmente pericolosa, ma non per questo imprigionata in catene di fantomatiche censure, che all’opposto lo ha glorificato nella sua dimensione attoriale, di interprete.

Capace di sottrazione e insieme di spaventosa espressività, anche ne L’incidente si fa exemplum di un’inquietudine sociale, ora traslata nella dialettica tra borghesia ed aristocrazia, ma ancora determinata dall’idea di controllo psicologico come controllo politico. La tensione erotica, disturbo quasi orrorifico ne Il servo, diventa qui ostinazione asfissiante, il desiderio unico di un professore verso una sua studentessa aristocratica, tediato e poi convinto dell’idea che famiglia e amici siano i veri elementi di disturbo. La padronanza di Losey dello spazio non gioca più solo con la casa, ma si misura in nuovi spazi, che sono comunque confini emotivi, di proprietà invasa, che acquista valore per poi perderlo di nuovo, fatti di malinconici giardini inglesi bagnati di pioggia.

Ora l’occhio del regista può permettersi di rimanere a guardare, enunciando la sua presenza, un paesaggio di campagna lasciato vuoto dalle figure umane appena scomparse. E noi, dall’altra parte, ne percepiamo la precisa atmosfera.