Protagonista di un omaggio dedicatogli lo scorso anno al Cinema Ritrovato, il lavoro del regista giapponese Yuzo Kawashima torna per l’edizione 2021 con due restauri, Elegant Beast e Temple of the Wild Geese, due opere tra le sue ultime, uscite nel 1962, un anno prima della morte avvenuta a quarantacinque anni, dalle quali traspare una matura compiutezza formale, una articolata scrittura di personaggi complessi e risoluti (in entrambi, due interpretazioni di Ayako Wakao) e uno sguardo conflittuale al Giappone di quegli anni.

Ma a farla da padrone in questi due film sono soprattutto gli sguardi sulle architetture. In Elegant Beast l’appartamento della famiglia di truffatori è la location esclusiva dove possono mettere in scena il proscenio e le quinte delle loro malefatte, ospitando e invitando i truffati, comparendo e scomparendo, agendo fuori campo o in campo, assistendo nascosti in stanze che sembrano avere dei doppifondi,
guardando attraverso dei piccoli buchi o origliando da lontano. È una cabina di regia, soffocante, esclusiva (tipica per i film che, come questo, nascono prima come opere teatrali), ma anche labirintica ed eccezionalmente complessa. Mentre in Temple of the Wild Geese l’architettura che fa da perno a tutta la vicenda è il tempio buddista dove un giovane aspirante monaco vive sotto le rigide regole di un “prete” buddista che condivide la propria abitazione con una giovane amante. Anche qui le stanze e i corridoi sono luoghi percorribili, caratterizzati da forze magnetiche, correnti che attraggono personaggi e ne respingono altri. Il monaco, per esempio, tiene sotto controllo l’apprendista tramite una corda che attraversa il tempio da una stanza all’altra, quando il monaco tira, l’apprendista si avvicina; al contrario la donna è attratta dalla stanza del ragazzo che visita regolarmente di notte instaurando una segreta storia erotico-sentimentale che si sviluppa all’oscuro di tutti.

Le abitazioni, che siano appartamenti o templi, sono anche status sociali. All’inizio di Elegant Beast, il padre e la madre della famiglia, che al netto di tutto sono i veri registi delle malefatte compiute, vengono ripresi intenti a nascondere gli oggetti di arredo che possano avere anche un minimo valore. Lo scopo è quello di nascondere i simboli di uno status per dimostrarne un altro, e così evitare che
i truffati, per i danni recati, pretendano in cambio i loro quadri, vasi o posacenere. La casa come protesi di una propria identità sociale che si interfaccia con ospiti o, come nel caso di Temple of the Wild Geese, con il mondo esterno. L’apprendista monaco deve in continuazione interfacciarsi con il mondo istituzionale della scuola che gli impone di fare esercitazioni militari per lui insostenibili, mentre nella sua abitazione il capo monaco lo schiaccia con oppressivo controllo.

Da una parte la lotta di classe che, alla fine dei conti, è lotta “nella classe”, mentre dall’altra una “lotta di generazione”. Se Elegant Beast era una più estesa critica alla società postbellica giapponese tramite la quale il regista guardava con ironia le nuove famiglie piegate da modernità e materialismo, dall’altra invece Temple of the Wild Geese è un grido di sconforto nei confronti dei sistemi di potere tra generazioni, delle ordinazioni buddiste (da lui stesso frequentate e abbandonate per protesta contro quella che lui riteneva la corruzione del monaco capo), di un Giappone che nasconde le proprie incoerenze dietro la maschera della tradizione, che sia essa la pittura del “tempio delle oche selvatiche” (come recita il titolo internazionale, riferimento a un elemento simbolici centrale per il film), la formazione politico/militare o la dimensione religiosa.

Conflitti, circoscritti in piccoli spazi e appiattiti da una profondità di campo che avvicina e riunisce i protagonisti insieme in singole inquadrature. Efficacissime scelte registiche che soffocano, ma che al contempo, tramite un uso arbitrario e autorevole di luci che si denaturalizzano all’improvviso, suoni che si interrompono senza preavviso e eccentriche posizioni della macchina da presa, riesce a dare spazio e profondità a due film nati come opere opprimenti ma che respirano più di quanto si creda.