Si insinua fra il Kore'eda di Un affare di famiglia e l’Hamaguchi di Drive my car il nuovo film di Kôji Fukada, Love Life. Come il primo, tesse inediti legami di famiglia, fra piccoli appartamenti e strade ordinate, e fa deporre una mamma in commissariato in un’inquadratura frontale e spoglia identica a quella con cui Kore'eda esponeva il concetto di maternità nel suo film del 2018. Come il secondo, racconta di genitori e coniugi feriti, di fughe notturne e di dolori soffocati nel linguaggio dei segni.

Anche se meno emozionante dei due grandi film a cui rimanda, Love Life cerca e trova un tono intimo e convincente, una temperatura calda alimentata a fuoco lento da quadri domestici d’appartamento, da condominii-alveare che li ospitano, fitti e regolari, e dal dialogo fra spazi di abitazioni e esterni - strade e giardini - che si dipana nell’arco dell’intero film. Protagonista è ciò che è dentro e che vi resta, quel che esce fuori e che ritorna a casa, in casa: lentamente si scova in quei passi, scale e terrazzi i veicoli dell’interiorità stessa dei personaggi, e di quanto di questa la proverbiale compostezza giapponese consenta loro di esprimere o trattenere.

Il lavoro sulla luce amplifica il medesimo discorso filmico. Luci che si accendono in serie al crepuscolo, con effetto domino, su interi quartieri, e soprattutto raggi di sole che aprono e ampliano i claustrofobici spazi dei minuscoli appartamenti, filtrando da tende e vetrate e posandosi su persone e arredi.

È soprattutto in questo lirismo, che recluta i sensi per trasmettere tepore e serenità, che si installa la vicenda. Taeko e Jiro vivono con Keita, figlio che Taeko ha avuto da una precedente unione. Improvvisamente, il padre di Keita si presenta dalla Corea al cospetto di Taeko, sconvolgendo il suo nuovo equilibrio di coppia in un momento di per sé drammatico quanto e più di un terremoto, come i tanti violentissimi che si verificano in Giappone. Non c’è bianco né nero, colori dominanti in Othello, il gioco da tavola di cui Keita è campione, nel triangolo che da qui si delinea, ma un muoversi misurato e sommesso dei tre reso da inquadrature geometriche tanto programmatiche quanto essenziali.

Più ancora dello svolgersi degli eventi e del susseguirsi di conversazioni e confronti, è il rifiuto dell’angoscia di cui ognuno di questi è potenzialmente foriero a colpire, l’esigenza tipicamente orientale di sopravvivere al meglio e rinnovarsi nel cambiamento, senza strappi. Come dimostrano sia i lenti zoom che installano pacificamente i personaggi nei loro ambienti, chiusi e non, o le inquadrature fisse che li osservano a lungo, neutrali, di fronte o di spalle, o le invisibili linee che non smettono mai di unirli.

La cifra stilistica di Fukada crea un prisma luminoso che resta forse chiuso in sé, ma instilla il dubbio che l’asian way di vivere dramma e tragedia sia ben più funzionale alla crescita di quello occidentale in cui siamo immersi.