Mentre scorrono i titoli di testa sulla panoramica notturna di una Milano apparentemente ordinata e da cui non traspare il marcio che incontreremo percorrendone le strade, la storia del delitto si è già conclusa. Il collega di Franco Amore, poliziotto alla sua ultima notte di servizio dopo più di trent’anni in cui non ha ammazzato nessuno, è stato ucciso in una situazione poco chiara. Appena arrivato alla sua festa per la pensione, Amore riceve la telefonata del capo, che gli chiede di recarsi immediatamente sul luogo del delitto. Parte a questo punto la storia dell’inchiesta, con un lungo flashback che ci riporta a dieci giorni prima dell’omicidio e in cui è lo spettatore stesso, non solo il poliziotto, a seguire i personaggi, diventando così parte inquirente, fino a ritornare nel presente sulla scena del crimine per l’epilogo.

La struttura tripartita de L’ultima notte di Amore tiene abilmente l’attenzione dello spettatore per le due ore piene della sua durata, sovvertendo la linearità della narrazione poliziesca e innestando il flashback tipico dei noir classici nella parte centrale, legando in questo modo le storie che, seguendo la distinzione di Todorov, abbiamo chiamato “del delitto” e “dell’indagine”. Tuttavia, a differenza dei noir più classici, in cui le risposte sono fornite dalla narrazione nel passato, L’ultima notte di Amore utilizza il flashback quasi come un inciso tra l’inizio e l’epilogo nel presente, obbligando a riscrivere la storia del delitto.

Il luogo del crimine, dove si svolge claustrofobicamente la maggior parte del terzo atto, rivisita l’idea del poliziesco della “camera chiusa”: pur essendo all’aperto, la scena del crimine imprigiona i movimenti di Amore, controllato dalla polizia e dai criminali, che, nella Milano multietnica del nuovo millennio, sono cinesi e non più mafiosi nazionali. E se il poliziotto continua a ripetere alla moglie Viviana di starne fuori e lasciarlo pensare, i procedimenti logici dell’indagine classica non aiutano e Amore deve imparare a leggere lo spazio urbano di Milano in modo “tattico”: comprendendo che le “minchiate” che la moglie impara dalla televisione possono essere utili per uscire da una situazione in cui malavita ed istituzioni si rivelano sempre più collegate. Come i pedoni di Michel de Certeau, Amore e Viviana “si aggirano in spazi che non vedono, ma di cui hanno una conoscenza altrettanto cieca dei contatti fisici amorosi”.

Dopo le produzioni e le ambientazioni internazionali di Escobar (2014) e The Informer – Tre secondi per sopravvivere (2019), con L’ultima notte di Amore Andrea Di Stefano continua la sua personale indagine nel poliziesco, muovendosi nel panorama italiano e manovrando abilmente ripetizione e innovazione di genere, dalla caratterizzazione dei personaggi ai nuclei dell’intreccio, commentati con sonorità che evocano Bacalov e Cipriani. La panoramica dei titoli di testa e le inquadrature di piazza Duomo nel finale ci riportano a Milano Calibro 9 (1972): la nebbia che avvolge il fondamentale film di Di Leo si è diradata nell’ultima notte di servizio di Amore, senza tuttavia migliorare la leggibilità della città.

Amore si colloca in una genealogia che parte dal poliziotto Andrea Marchi (Raf Vallone) de Il bivio (1951) di Fernando Cerchio per arrivare al commissario Malacarne di Luc Merenda ne Il poliziotto è marcio (1974), sempre di Di Leo, anche se il suo destino è più aperto e la sua caratterizzazione più sfumata, grazie anche all’interpretazione di Favino. Viviana, la donna del poliziotto, esce dalla caratterizzazione manichea di “sottomessa o traditrice”, riscrivendo il suo ruolo dallo stereotipo iniziale della “bella” nella storia del delitto a protagonista della storia dell’indagine.