Abel che è amato da Ève ma ama Marianne che però ama Paul o forse no come dice il figlio Joseph. Per il suo secondo lungometraggio dopo Les deux amis, Louis Garrel sceglie nuovamente di chiamarsi Abel e mettere in scena un triangolo amoroso fra due uomini e una donna. Sì, perché nonostante Paul non venga mai mostrato e sia già morto per quasi tutto il film, è lui il terzo polo della storia d'amore fra il protagonista e l'indecifrabile Marianne (Laetitia Casta), con Ève (Lily-Rose Depp) a fare evidentemente solo da passaggio narrativo.
Ne L'uomo fedele Garrel è meno accorato che nel suo primo film, quanto piuttosto rilassato, divertito e compiaciuto. Già nella prototipicità dei nomi, con infiniti rimandi semiotici, denuncia la sua intenzione di mettere in scena con levità un compendio sia di cinema che di cultura francese in senso largo, mischiando commedia con dramma e aggiungendo anche qualche tocco thriller, nei dubbi che Joseph suscita in Abel sulla reale natura di sua madre. Naturalmente, si tratta di thriller in salsa d'oltralpe, e dunque una tisana sospetta suscita più la curiosità interlocutoria di Grazie per la cioccolata di Claude Chabrol che l'inquietudine sgomenta de Il sospetto di Alfred Hitchcock.
In questo sostrato di citazioni e riferimenti, la parte del padrone la fanno soprattutto i riferimenti letterari delle opere di Pierre de Marivaux (la cui protagonista del romanzo d'elezione, La vita di Marianne, si chiama proprio come la nostra protagonista) e de Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos. Più negli intenti che negli effetti, però: Marivaux dietro la dissimulazione dei sentimenti delle sue schermaglie amorose insinuava riflessioni calibrate sull'ambiguità umana, e de Laclos mostrava spietatamente il lato oscuro della malvagità e del desiderio di potere nelle relazioni interpersonali. La sceneggiatura dello stesso Garrel e dell'icona del cinema francese Jean-Claude Carrière, invece, si mantiene fedele al motto di quest'ultimo “ogni scena una sorpresa” e fa agire i personaggi in maniera imprevedibile.
L'effetto finale è più brillante che incisivo, e l'evidente intento programmatico, se da un lato avvince al proseguimento della visione, dall'altro suscita ben poca compartecipazione emotiva: i personaggi che risultano più sfuocati che misteriosi, più svagati che intriganti. Il voice over, usato sia per Abel che per Marianne ed Ève, non aggiunge granché alle loro emozioni e motivazioni, e il personaggio più a fuoco risulta curiosamente Joseph (Joseph Engel), bambino enigmatico ma comprensibile nei suoi dubbi e nei suoi intenti.
Tutta questa imperscrutabilità è voluta e ricercata, e Abel è in realtà “l'uomo fedele” non tanto per costanza del suo sentimento verso Marianne negli anni, quanto proprio per il suo atto di fede verso una donna a suo modo irraggiungibile, che sul finale lo invita a parlare di loro stessi ancor meno di quanto già non facciano. C'è in tutto questo una buona dose di ironia sui ruoli di genere e sulla retorica dei sentimenti, e il film è di fatto molto piacevole e ricco di battute intelligenti, ma resta l'impressione di fondo di un rifugio nel classico piuttosto che una sua rivitalizzazione, e per Louis Garrel è francamente troppo presto.