Cecilia riesce a sfuggire all’amore tossico di Adrian, ricco scienziato e amante violento, e si rifugia in casa di un amico per ricominciare una nuova vita. Poco tempo dopo, strani fenomeni verificatisi nell’abitazione convincono la donna che il suo carnefice, suicidatosi qualche giorno dopo la sua fuga, sia il responsabile di una soprannaturale ritorsione nei suoi confronti. Sembra la trama di una classica ghost story con tanto di “ritornante” trasformato in poltergeist molesto, ma siamo invece di fronte a un’intelligente rilettura dell’uomo invisibile di H.G. Wells che approfondisce lo spunto narrativo già in nuce nella versione cinematografica di Paul Verhoeven.

Approdato in Italia e in altri paesi direttamente in streaming a causa del Coronavirus, l’opera terza del regista di Insidious 3 – L’inizio e Upgrade conferma appieno la bontà della formula vincente di Jason Blum e della sua Blumhouse e ricostituisce temi e problemi affrontati da Whannell nei suoi precedenti lavori, tutti improntati a raccontare i conflitti e le paralisi giustizialiste di una società claustrofobica attraverso il cinema di genere. Costruito in crescendo, attraverso una suspense ben calibrata e una costruzione tematica a matrioska, il film espunge il tono grottesco da favola dark che era il tratto distintivo del fantastico di James Whale e racchiude in poco più di due ore i paradigmi della devianza misogina che apparivano come schegge seminali nella versione di Verhoeven: stalking, violazione della privacy, violenza di genere, abuso psicologico; il tutto immergendo l’eroina di turno negli spazi asettici di case-laboratorio e dimore-trappola che concorrono a creare una vera e propria topografia dell’orrore domestico.

L’ossatura dell’opera si configura come un melting pot di sottogeneri diversi, dal thriller ipercinetico all’home invasion, fino ad arrivare al revenge-movie, in un amalgama coerente sporcato dalle oscure scie del crime drama familiare e dell’horror claustrofobico. Il personaggio protagonista, e questa sì, è una novità rispetto ai vari capostipiti letterari e cinematografici, non è quello invisibile, ma una donna (l’iconica ancella femminista Elisabeth Moss) soggiogata dal mad doctor che sfrutta la tecnologia per controllare il proprio oggetto di piacere. L’aguzzino utilizza infatti, nella sua abitazione, una rete di telecamere per monitorare Cecilia e, quando si muta in uomo invisibile, indossa una muta coperta di occhi che si insinuano nella nuova vita della vittima designata; in tal modo il discorso sulla pervasività della tecnologia e sul monitoraggio costante dell’immagine-corpo lascia intuire che il bersaglio unico dell’opera, intangibile, malvagio e sofisticato, sia il “fantasma” misogino prodotto da un carnefice iperconnesso che filtra come ombra fugace, come apparizione nella casa in cui trova riparo Cecilia e che si palesa in qualità di figura deumanizzata – laddove gli altri uomini invisibili mantenevano la propria sembianza – con tanto di tenuta hi-tech, pronto a stalkerare, vessare e manipolare la realtà per mettere Cecilia contro tutti.

L’unico suo scopo è sfinire fisicamente e psicologicamente il suo ribelle “oggetto” del desiderio. Il “fantasma”, però, è osservato, studiato e infine strategicamente battuto da uno sguardo più autentico e onnicomprensivo, un “male gaze” che, riprendendo le parole di Laur Mulvay è “ciò che riguarda non il regista ma il protagonista”. L’uomo invisibile si configura dunque come un ottimo horror sociale che riporta a galla il Dark Universe della Universal che, dopo esser naufragato a causa del flop de La mummia, cercava solo una buona occasione per ripartire con storie singole e niente crossover.