Ma’ Rosa è innanzitutto una protagonista che è anche la sua stessa storia. Ha il volto sofferto, il corpo sformato, gli occhi pragmatici di Jaclyn Jose, premiata con la Palma d’Oro per la miglior attrice al Festival di Cannes 2016. Donna che viene identificata in quanto mater familias, matrona delle finanze domestiche nel contesto degradato di Manila, gestisce, con l’aiuto del debosciato marito Nestor, un piccolo alimentari che funge da copertura per lo spaccio di droga. In seguito alla soffiata di un ragazzo, i coniugi vengono arrestati e i loro quattro figli chiedono a tutta la comunità di contribuire alla cauzione. Attraverso i due principali spazi del film, la claustrofobica centrale dominata dai poliziotti corrotti e il brulicante, espanso, avvilente quartiere, Brillante Mendoza coglie l’occasione per calarsi nei bassifondi della città adottando gli strumenti atti a compiere una vera e propria ricerca etnografica.
Come coloro che studiano lo sguardo dell’altro, il regista filippino instaura un rapporto dove il distacco empatico è pari solo alla torrenziale drammaticità dell’oggetto esaminato. Riesce nell’intento non solo piegando l’approccio neorealista del pedinamento alla prospettiva antropologica, ma anche avvalendosi al meglio del clima: l’uggia tropicale come asfissia sociale, la pioggia apoteosi della caducità esistenziale, la latitanza della luce naturale emblema di una catabasi notturna in cui gli squallidi esterni sono avamposti dell’inferno degli interni. Magari Mamma Rosa e il marito usciranno vivi dall’incontro con i poliziotti violenti, ma nel mondo fuori i figli si avventurano in un caos non meno scioccante, che solo l’abitudine al dissesto può far sopportare. Una famiglia, quindi, che è anche discorso sulla sopravvivenza, disponibile a varcare i territori più amorali pur di difendersi dal peggio: perciò una brutale marchetta, un pestaggio, la rinuncia ai beni materiali, l’umiliazione di fronte ad una parente maligna risultano loro accettabili, perché garantiscono all’unico punto di riferimento sociale, economico, affettivo di non disgregarsi.
Senza la percezione di questo angosciante scenario, non si può entrare davvero in sintonia con la parabola di Mendoza, dove la droga, in fondo, è un modo come un altro per lenire quel male dal quale ciascuno cerca di emanciparsi: per la famiglia, un tentativo di sbarcare il lunario; per i consumatori, la disperata tentazione di evadere, anche radicalmente, dal background; per l’ordine costituito, il pretesto per un facile sopruso sui deboli. Pur individuando nell’(anti)eroina titolare il cuore del racconto, Mendoza, da abile osservatore del sottosuolo, si concentra sulla coralità, sui drammi personali che costituiscono la grande tragedia collettiva, intuendo nella frammentarietà, nell’accumulo, nella tensione apocalittica la chiave di una narrazione magmatica. Citando qualcuno che però crede nella speranza, qui davvero irreperibile, è un film che viene “dalla fine del mondo”.