A pensarci bene, c’è qualcosa che avvicina intimamente i personaggi dei fratelli Coen al Macbeth di Shakespeare. Non si tratta della brama di potere, né (soltanto) dell’indomabile pulsione distruttrice dell’essere umano, ma di un’autentica prigione dell’ego. Insomma, al di là della profezia delle streghe e di un destino ineluttabile, Macbeth resta prigioniero di se stesso. La sua mente è una gabbia che lo tiene sempre a debita distanza da una realtà condivisa, dove c’è posto per le ambiguità e persino per i rimorsi, ma mai per il pentimento. E in un tempo e uno spazio dove “il bello è brutto, il brutto è bello”, tra le nebbie dense e le brughiere desolate del medioevo scozzese, Macbeth trova conforto e condanna in una soffocante dimensione interiore e soprannaturale.

Si potrebbe dire che dopo l’addio al cinema del fratello Ethan, Joel Coen trovi rifugio nella trasposizione di un’opera capace di contenere e scardinare i tratti familiari della propria filmografia. Un atto di conservatorismo rivoluzionario al quale si aggiunge il bilancio delle tante evoluzioni del Macbeth su grande schermo, dal 1948 a oggi. Macbeth non è soltanto un modo per riappropriarsi di un personaggio iconico e “maledetto”, ma è soprattutto un ritorno a un cinema scarno, crudo, minimale.

In costante equilibrio tra archetipo teatrale e trucco cinematografico, il Macbeth di Coen cattura le austerità e le amplifica senza esagerare, in pieno stile produttivo A24. Ma non è un Macbeth “horror”, genere al quale la A24 è da sempre affezionata: il film di Coen sa di un cinema antico e simbolico, di rigoroso bianco e nero e forme irreali che respirano in sincrono con il ritmo del dramma. È una celebrazione della mise-en-scène cinematografica che tradisce e allo stesso tempo esalta il meccanismo della suggestione teatrale.

Dalle geometrie opprimenti dei teatri di posa a una durata contenuta che sceglie di esaltare solo i momenti salienti dell’opera, The Tragedy of Macbeth agisce per sottrazione senza perdere un grammo della sua maestosità. Cita, e lo fa spudoratamente: dall’espressionismo tedesco a un certo gusto bergmaniano (la straordinaria Kathryn Hunter nei panni della strega una e trina, che finisce per ammiccare alla Morte de Il settimo sigillo), prediligendo i toni dell’astrazione e della decadenza. C’è quindi un senso di minaccia suggerito, indirizzato e mai estremizzato, come le interpretazioni degli attori. Denzel Washington e Frances McDormand appaiono infatti come un Macbeth e una Lady Macbeth “prosciugati” e la loro discesa nella follia non risulta cruenta né disperata, ma subdola, a tratti sussurrata.

Lontano dall’erotismo sanguinoso di Polanski, ma anche dalle versioni di Orson Welles, Akira Kurosawa, Béla Tarr e Justin Kurzel, il Macbeth di Coen sembra superare ogni paragone mettendo al centro della scena lo spazio psichico. È così che un racconto così oscuro ed efferato diventa inquietante in un senso spiccatamente moderno, e a una violenza che potrebbe felicemente irretire lo spettatore si prediligono pose, movimenti e architetture ostili e angoscianti (più che angosciosi). È quasi come se Shakespeare incontrasse idealmente Pinter, con personaggi confinati in luoghi mai accoglienti, irrimediabilmente chiusi anche quando aperti, e in un tempo sospeso (“brutto e bello”) che li imprigiona e che al contempo ne è rifugio.

Non soltanto archi e timpani cupissimi: la colonna sonora — ancora una volta firmata da Carter Burwell, complice dei Coen dagli esordi — è fatta di gocce che diventano tonfi ossessivi, passi sordi e riverberati, rami che sferrano colpi stridenti sul vetro. Ogni suono si trasforma in commento nella marcia funebre di Joel Coen. Un alternarsi di sospiri e vibrazioni che scandiscono la sorte di figure vive e spettrali, da Re Duncan (Brendan Gleeson) a Banquo (Bertie Carvel) passando per la coppia di carnefici, laddove il poetico lascia il posto alla sentenza.

The Tragedy of Macbeth è una proiezione perversa della mente dei protagonisti, rinchiusi nel formato 4:3 per un’artificiosità celebrata e mai eccessiva. È l’omaggio solitario di Joel Coen alla storia del cinema, fedele e infedele al testo del Bardo, per rinnovare ancora una volta le promesse e le magie di un linguaggio intraducibile e intramontabile.