Il tanto dibattuto film sul fantasma paterno di Mastroianni è stato presentato in anteprima al 77° Festival di Cannes. Un omaggio all’immortale attore nell’anno del suo centenario, scritto e diretto dal prolifico Christophe Honoré e interpretato da Chiara Mastroianni.
C’è forse un equivoco alla base delle reazioni perplesse di molti addetti ai lavori e di parte del pubblico, perché Marcello mio non è un biopic su Mastroianni e nemmeno un semplice omaggio allo stesso, ma un’operazione molto più complessa e stratificata che gioca sul continuo ribaltamento tra messa in scena finzionale e vita privata, un corpo a corpo fiction/nonfiction che cerca di rielaborare il fantasma di Marcello e il suo mito attraverso la figura e i ricordi privati della figlia Chiara.
L’operazione, che in parte può essere imparentata con il recente Mi fanno male i capelli di Roberta Torre, in realtà supera il puro concetto di mimesi nei confronti di una figura mitizzata (Alba Rohrwacher interpreta una donna che si identifica in Monica Vitti), divenendo una vera e propria auto-psicoanalisi e elaborazione del complesso edipico, dove appunto Chiara Mastroianni interpreta sé stessa in una sorta di mockumentary che coinvolge persino la madre Catherine Deneuve, gli ex Benjamin Biolay e Melvil Poupaud e gli attori Fabrice Luchini, Nicole Garcia e Stefania Sandrelli nel ruolo di loro stessi.
Il contesto di finto documentario però viene infranto dal maquillage (visivamente posticcio) che indossa Chiara Mastroianni, volendosi identificare col padre e riportarlo in vita attraverso il feticcio comico del travestimento che si fa via via elemento taumaturgico e al tempo stesso prigione in cui smarrire la propria identità.
Il film si apre su un finto set dove Chiara, truccata come la Ekberg ne La dolce vita, si immerge in una fontana di Parigi, per poi immergersi successivamente nella vera fontana di Trevi ma abbigliata come il padre, mentre in chiusura Chiara/Marcello scioglie questa duplice identità nuovamente nell’acqua, spogliandosi di questa doppiezza sulla spiaggia di Formia e richiamandosi nuovamente al capolavoro di Fellini.
Chi conosce e apprezza il cinema di Christophe Honoré ne ritrova sicuramente delle tracce, dei lembi in Marcello mio: la leggerezza del musical, la malinconia del mélo e l’ironia surreale, attraverso una mescolanza di materiali eterogenei inseriti in una struttura narrativa volutamente dispersiva, fatta di stasi, sospensioni, silenzi e iati.
Chiara attraversa Parigi e Roma, come fossero dei non-luoghi, delle toponomastiche mentali e psicanalitiche, alla riscoperta di sé e del proprio padre come mito e come uomo, in una ronde comico-sentimentale accompagnata dalle canzoni di Tenco (Mi sono innamorato di te), Concato (A Dean Martin) e dalla nota aria pucciniana del Gianni Schicchi.
Forse il momento più assurdo e spiazzante di tutto il film è quando Chiara/Marcello partecipa ad un quiz televisivo, in cui Stefania Sandrelli deve riconoscere il “vero” Mastroianni in una fila di individui abbigliati come i vari personaggi dei suoi film. Questa incursione così brusca nel mondo freddo e patinato della nostra televisione contemporanea potrebbe risultare destabilizzante e persino un mezzo forzato per strizzare l’occhio al pubblico italiano.
In realtà suona come un passaggio fortemente destabilizzante per la protagonista che si vede costretta a dichiarare pubblicamente di essere suo padre, quando questa identificazione genitoriale nasce come gesto intimo da elaborare in silenzio. Per questo motivo Chiara fugge da quel palcoscenico kitsch e torna ai propri vagabondaggi.
Marcello mio non sarà di certo il miglior Honoré, ma sicuramente è un lavoro coraggiosamente sperimentale, dove gli affetti personali vengono messi in scena e rielaborati attraverso un gioco malincomico e struggente di specchi, riflessi e traiettorie dell’anima.