Come Roma di Alfonso Cuarón, anche Maria Candelaria di Emilio Fernández si apre su una superficie d’acqua, nella quale si specchia il cielo messicano. E come in Roma, anche in Maria Candelaria l’acqua è strumento di lavoro -nel primo pulisce e nel secondo trasporta-, e linea di confine, quello che separa la sicurezza dalla minaccia. Un’indigena ingenua e povera si prende amorevolmente cura di una casa e dei bambini che la abitano in Roma, ed un’altra indigena, anch’essa povera, protegge ansiosa un lembo di terra, un animale sinonimo di futuro ed un sentimento da celebrare in Maria Candelaria. Altri elementi primari, terra e fuoco in primis, oltre alla scelta di Cuarón del bianco e nero, contribuiscono al dialogo a distanza fra i due film.
Dice il pittore motore della narrazione in Maria Candelaria che “la razza indigena è delicata, è l’essenza della bellezza messicana”, e lo stesso a ben vedere fa Cuarón settantacinque anni dopo con il suo Roma. Due celebrazioni del passato e delle proprie radici, dislocate su 4 livelli temporali: da un lato il 55enne Cuarón che omaggia nel 2018 la domestica che lo ha cresciuto nel ricco quartiere di Roma a Città del Messico, dall’altro Fernández che nel ’43 immagina una tragedia sentimentale avere luogo ad inizio ’900 a Xochimilco, caratteristico rione a sud della stessa città. In entrambi i casi epoche passate e anche per questo età di innocenza perduta come nell’omonimo film di Scorsese, esattamente come in quel film sulla New York di fine ’800 pure solo in apparenza, nella realtà già macchiate da peccati di sopraffazione.
Maria Candelaria è un lungo flashback, nel quale un pittore di successo di Città del Messico ricorda come il ritratto di una donna indigena bella e perseguitata fu fra le cause della sua morte decenni prima, in circostanze che tuttora lo perseguitano. Maria era promessa sposa a Lorenzo Rafael, con cui conviveva su uno dei canali di Xochimilco. I due si mantenevano vendendo fiori e ortaggi, costretti a difendersi dalla malignità di Don Damián, signorotto locale invaghito di Maria che al contempo disprezzava per le sue umili origini, e di Lupe, giovane donna invidiosa del debole di Damián per Maria. Ridotti in miseria dalle trame di questo Don Rodrigo messicano, finirono Lorenzo in carcere e Maria ad acconsentire per denaro a posare per il ritratto. Il successivo stigma di prostituta, professione che era stata della madre, portò gli inferociti abitanti di Xochimilco ad uccidere Maria per lapidazione, incapaci di accettarla e determinati a condannarla.
Roma e L’età dell’innocenza, dunque. La condizione femminile è al centro dell’interesse di Fernández, vincitore con Maria Candelaria della Palma d’Oro a Cannes nel ’44, come di quello di Cuarón e Scorsese. E in tutte e tre le pellicole una donna è su differenti piani calpestata e screditata, si tratti di umile indigena che dà molto per accontentarsi di poco (Roma), o che lotta per quel poco (Maria Candelaria), o di nobile emancipata messa all’angolo da manovre tribali violente quanto una lapidazione (L’età dell’innocenza). Nelle due pellicole messicane, la necessità di parlare delle proprie origini e di fissare il debito affettivo e genetico che ad esse li lega porta i due autori alla rappresentazione del riscatto delle donne da cui idealmente discendono. Ma anche nel caso dell’unico film in costume di Scorsese si ritrova, in una logica invertita, la stessa necessità di riscatto di un’umile nascita, la propria e della famiglia di provenienza (“dedicato a Luciano Charles Scorsese” dicono i titoli di coda).
C’è poi in Maria Candelaria, come sempre in Fernández, la leggendaria fotografia di Gabriel Figueroa, impegnata a restituire ed esaltare i paesaggi selvatici della natura messicana. Si pensi alla lunga sequenza in barca di Maria e Lorenzo al chiaro di luna, in cui il silenzio della natura concede ai due sfortunati amanti uno dei rari momenti di pace e abbandono all’autenticità dei loro sentimenti, cui fa da contraltare quella della furibonda aggressione a Maria, con gli abitanti di Xochimilco armati di torce che si fanno strada nei boschi per crocefiggere da innocente l’indegna peccatrice. E di nuovo il debito di Cuarón nelle vesti di direttore della fotografia di Roma si manifesta in tutta la sua rispettosa evidenza.
A dispetto di una trama che ad occhi contemporanei può apparire semplice ed ingenua, i temi e lo stile visivo di Maria Candelaria hanno non solo resistito alla prova del tempo, ma anche dimostrato l’influenza di Fernández su uno degli autori più importanti di oggi, geneticamente legato -e non potrebbe essere altrimenti- alla tradizione cinematografica del proprio paese, e su uno degli autori più importanti di sempre, geneticamente legato a tutto il cinema che lo ha preceduto.