Cassavetes definisce Mariti una commedia, ma in realtà descrivono meglio il film le parole angoscia ed esasperazione. L’angoscia è quella dei protagonisti, che non riescono a mascherare il rimorso per le scelte compiute, ad accettare che il tempo non torna indietro. Non importa quanto tentino di regredire ad uno stato infantile abbandonandosi a capricci e desideri inconsistenti, la loro vita è chiaramente impostata e davanti a loro c’è solo la morte. È proprio a partire dal decesso di un loro amico che i tre mariti hanno un’epifania, acquisiscono consapevolezza della fine, e cercano di ingannarla pateticamente ricreando quell’atmosfera da camerati che meglio si addice a bambini delle elementari. La lunga “veglia funebre” e il viaggio in Europa sono solo due delle infinite direzioni possibili nel loro percorso senza meta. Cassavetes avrebbe potuto muovere in lungo e in largo i suoi protagonisti, fargli accadere di tutto, realizzare un road movie insomma ma decide, invece, di tenerli inchiodati a pochi luoghi, peraltro neanche particolarmente significativi. Un posto vale l’altro quando non si può raggiungere una meta e la scelta del regista è esasperare lo spettatore, renderlo partecipe della frustrazione dei personaggi.

In Mariti sono presenti due sequenze interminabili nella durata e insostenibili psicologicamente: la prima al tavolo di un bar e la seconda in una stanza d’albergo. In un caso i tre protagonisti cercano di incitare una donna a cantare, nell’altra tentano di sedurre delle ragazze conosciute poche ore prima. L’accanimento sadico dei tre in ambo i casi è messo in scena (coerentemente al tema) con lunghissime inquadrature strette sui volti dei personaggi, che cercano di sembrare ironici ma rivelano la stizza e la paura che li attanaglia: la mancanza di controllo sulla situazione. Le prime inquadrature del film mostrano istantanee di una festa a cui partecipano le loro famiglie: le mogli si trovano coi rispettivi bambini e separate le une dalle altre, mentre i mariti sono sempre fotografati insieme mentre mostrano i bicipiti, noncuranti delle consorti.

Già con questo primo espediente Cassavetes isola i mariti in uno spazio omosociale e infantile, in cui la donna non è ammessa poiché rappresenta un pericolo prima ancora che un desiderio: essendo portatrice di regole e vincoli è vista come un freno alla libertà. Un’altra forma di morte, insomma, da cui i tre uomini odiano dipendere ma non riescono ad emanciparsi. Un paragone azzardato, che però trovo divertente, è tra Mariti e il genere catastrofico. Nei film catastrofici quale che sia la minaccia (un disastro naturale, l’arrivo di mostri o le profezie dei Maya) il tema principale è la possibilità dell’uomo di sconfiggere le morte attraverso le proprie capacità e la speranza, di dare un senso alla propria vita dopo aver esperito la forma massima del suo annichilimento. In Mariti guardare in faccia la morte non porta consiglio, contribuisce solo a incutere timore in uomini inermi. La catastrofe nella “commedia” di Cassavetes e la speranza nel catastrofico trovano il loro comune denominatore nel tema della morte, un’immagine abusata e raramente valorizzata al cinema.