Nella carriera da libertino di Rainer Werner Fassbinder l’anno 1971 rappresenta una cesura ideologica e stilistica, per ammissione del diretto interessato. Dopo aver realizzato in appena due anni una decina di personalissimi film tra cinema e televisione, dall’esordio gangsteristico e godardiano di L’amore è più freddo della morte alla commediola bavarese dei Pionieri a Ingolstadt, Fassbinder fondò una casa di produzione tutta sua, la Tango Film, e contemporaneamente scoprì il cinema di Douglas Sirk.
L’incontro con Sirk significò per Fassbinder la rinuncia all’ "autobiografia onirica" (sono parole sue) dei film precedenti e la ricerca di un contatto emozionale col pubblico attraverso una forma deviante del melodramma hollywodiano, in cui l’amore si scopra "lo strumento migliore, più insidioso ed efficace di oppressione sociale". In questa definizione, tratta da un articolo di Fassbinder su sei film di Sirk pubblicato su Fernsehen und Film nel febbraio del ’71, c’è già il tema di Martha, film per la televisione girato nel ’73 in 16mm (poi gonfiati a 35) e mandato in onda dall’emittente produttrice WDR il 28 maggio 1974.
Compreso tra la La paura mangia l’anima, rifacimento proletario di Secondo amore di Sirk, e l’incursione ottocentesca di Effi Briest, Martha porta in ambienti prima barocchi poi goticheggianti una vicenda di rieducazione perversa e vampirismo coniugale, magari influenzata dalle due regie ibseniane del periodo (Hedda Gabler al Freie Volksbühne di Berlino nel dicembre ’73 e Nora Helmer, adattamento di Casa di bambola per il piccolo schermo), e calata in un’atmosfera noir, derivata dal racconto di Cornell Woolrich cui è liberamente ispirato il soggetto – da un altro racconto di questo campione della crime fiction è tratto La finestra sul cortile, mentre La sposa in nero e La mia droga si chiama Julie di Truffaut vengono da due romanzi firmati con lo pseudonimo di William Irish.
Dopo aver visto morire l’anaffettivo e autoritario padre sulla scalinata di Trinità dei Monti mentre erano in vacanza, Martha, inquieta bibliotecaria trentunenne, torna a Costanza, dove ritrova Helmut Salomon, un fascinoso ingegnere di mezza età che aveva già incontrato nel cortile dell’ambasciata tedesca a Roma e che subito sposa contro il volere della madre depressa e alcolizzata. Ma ben presto il matrimonio si rivela un cul-de-sac sadomasochista in cui Helmut, che si eccita davvero solo quando lei è inerme e sottomessa, brama di ridurre Martha, spaventata e attratta a un tempo dalle “correzioni” imposte dal marito, a un manichino di carne. Il finale, letteralmente paralizzante, lascia intuire che si tratta di un’inversione del mito di Pigmalione: è la storia di un uomo che riesce a trasformare in statua la donna che ama. Il tutto, naturalmente, nei tempi e nei modi che si addicono alla seconda maniera di Fassbinder.
All’addetto dell’ambasciata che le domanda il suo indirizzo Martha risponde "21 Detlef Sierck Strasse", cioè una via intitolata a Sirk, che cambiò il suo nome di battesimo una volta arrivato negli Stati Uniti. Questo omaggio toponomastico, che riporta il maestro espatriato nell’alveo del cinema tedesco contemporaneo insieme alla sua tavolozza fiammeggiante, suggerisce di tornare indietro a Il trapezio della vita per trovare la fonte dei movimenti vorticosi e ininterrotti della macchina da presa del fido Michael Ballhaus (da antologia il dolly spiraliforme del primo incontro tra Martha ed Helmut) e il senso di impotenza di fronte alla solitudine e alla paura della protagonista che Fassbinder riesce a suscitare nello spettatore.
Ma, al di là degli onnipresenti specchi, la moltiplicazione di oggetti del décor ed elementi scenografici frapposti tra gli attori e l’obiettivo fa pensare soprattutto ai labirintici piani sequenza di Ophüls, "cineasta de chevet" non solo per Truffaut, che tale lo designò, ma anche per Fassbinder: e difatti Martha appare oggi l’anello di congiunzione tra Nella morsa (1949), penultimo film americano di questo altro grande esule tedesco, e L’inferno (1994) di Chabrol, passando per Il verde prato dell’amore (1965) di Varda.
Se in un’intervista del ’74 Fassbinder espresse la sua ammirazione per il primo Chabrol, del quale si considerava un parente più freddo, tre anni dopo dichiarò quanto lo avesse influenzato l’opera terza di Varda, film di persone che «oggettivamente, sono felici ma che hanno bisogno di ripeterselo in continuazione», proprio come fa Martha, puntualmente ammonita da Helmut (che paternalisticamente ne ripete il nome alla fine di ogni frase) nella piovosa sequenza in macchina che precede la loro luna di miele. Al pari dei tre film citati, quello di Fassbinder rappresenta il matrimonio (e nello specifico il matrimonio borghese) come una scena-prigione di “giochi crudeli”, forse mortali, in cui i desideri sopravvivono attraverso dinamiche di dipendenza e dominazione, secondo un crescendo di asfissiante eppur magnetico abbandono della donna alla volontà del maschio.
Film spigoloso come la figura di Margit Carstensen e placidamente brutale quanto i raptus di Karlheinz Böhm, dopo cinquant’anni Martha si dimostra ancora capace di affascinare grazie alle carrellate scintillanti e al fatale accompagnamento del Concerto per violino n. 1 di Max Bruch, oltre che di trascinare in una dimensione di totale saturazione sensitiva e mentale, dove le passioni umane sono talmente importanti da non lasciare spazio a nient’altro, come quasi sempre accade col cinema inarrestabile di Fassbinder.