Due mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia, la signora Bellocchio partorì Marco per poi scoprire con grande sorpresa che la gravidanza era gemellare. A tre ore dall’arrivo del primo spuntò il secondo e siccome aveva il cordone ombelicale attorno al collo allora la mamma decise di farlo battezzare subito. Camillo, però, sembrava non poter stare al mondo e quindi la mamma pretese un secondo battesimo. Andò tutto bene e dunque, qualche tempo dopo, si poté celebrare il terzo battesimo. Tutto per paura che il neonato potesse finire nel limbo: “Ma ora il limbo l’hanno tolto” rassicura Letizia, la vivace sorella sordomuta che sa farsi capire benissimo; “I bambini vanno tutti in Paradiso” ci tranquillizza Maria Letizia, la sorella dall’eloquio pacato e il sorriso accogliente.

Certo fa sorridere che un Bellocchio sia stato battezzato tre volte, considerando la storia dei maschi celebri della famiglia (Marco ma anche Piergiorgio, il fondatore dei Quaderni piacentini), ribelli e anticlericali. Ma questo ricordo che apre Marx può aspettare è illuminante per capire la storia di una famiglia minata, sostiene Marco, da “un’arida infelicità”, persa in “un deserto emotivo”. Dove le ragazze si sono accodate al modello materno, abbracciando una fede semplice che è desiderio di protezione e necessità di risposte e i ragazzi, invece, hanno coltivato l’emancipazione e l’esercizio del dubbio. Oltre a Marco e Piergiorgio è ancora tra noi anche Alberto, già sindacalista svagato e disincantato. C’era anche Tonino, l’unico ad abbracciare con serenità una lineare vita borghese. E c’era Paolo, il primogenito pazzo, talmente borderline da aver disturbato e ossessionato tutti i fratelli con le sue urla e bestemmie. E c’era Camillo. Ci sono, anzi, perché il passato sembra essere un pezzo di un tempo che trascende ogni cosa.

Nel dicembre 2016, i cinque fratelli Bellocchio superstiti si ritrovano per un pranzo a Piacenza, con il pretesto di festeggiare vari compleanni. Che il cinema di Marco Bellocchio sia profondamente in dialogo con la propria vicenda familiare è assodato: i “family movies” alla Vacanze in Val Trebbia e Sorelle Mai, certo, e la presenza del parentado nel suo universo cinematografico (l’ultimo caso è Sangue del mio sangue), per non parlare di quanto il privato abbia influenzato l’intera opera artistica (lo stesso Paolo appare trasfigurato in Salto nel vuoto e L’ora di religione). Trovatosi in quella che forse è l’ultima riunione con quei fratelli ormai anziani, l’autore decide che è arrivato il momento di fare i conti con il grande trauma della famiglia: il suicidio di Camillo, avvenuto all’indomani del Natale del 1968.

Marx può aspettare parte da Paolo, il fratello odiato (non hanno problemi ad ammetterlo con naturalezza, ed è spiazzante) perché sintomo più evidente di una famiglia che si tiene in casa il perturbante imponendo la convivenza con i suoi effetti sul mondo, e arriva a Camillo, l’ultimogenito che la morte ha trasformato in “angelo” e in realtà è presenza-assenza mai compresa, incapace di collocarsi in un mondo dominato dai fratelli in ascesa, anima ferita mai del tutto amata (e lo ammettono, lo ammette Bellocchio: non l’ho amato abbastanza). In mezzo si ragiona su un padre morto presto e che teneva insieme i pezzi di un clan complesso, su una madre talmente religiosa – cieca come quella de I pugni in tasca, spiritata come ne Gli occhi, la bocca e Fai bei sogni, alterata nel santino de L’ora di religione… – da respingere infine l’idea di un figlio suicida, su un lessico familiare in cui il peso del dolore si è via via trasformato nella rimozione. Dove per rimozione s’intende non solo la distruzione dei feticci ma anche l’invenzione di mondi paralleli dove poter convivere con i fantasmi, rispolverare i cimeli di una promessa di vita (pagelle, partecipazioni, foto), mitigare i sensi di colpa, scavalcare il cadavere e proseguire la vita.

Se è vero, come dice il gesuita Virgilio Fantuzzi in un dialogo con il regista dentro una chiesa (grande idea di regia), che Bellocchio ha usato il cinema come un penitente dentro il confessionale, mettendo in campo le contraddizioni, i tentennamenti, la rabbia, l’orgoglio, le paure di un uomo inquieto, allora Marx può aspettare è la confessione massima. Un viaggio dentro una crepa dentro cui c’è tutta la vita, un’interpretazione di sé che procede come una parafrasi del discorso artistico, la chiusura di un cerchio. Un film tenerissimo nel dare voce alla trasparenza di una fede inamovibile, con le sorelle fermamente convinte che il suicidio sia stato in realtà una disgrazia e a distanza di mezzo secolo sono ancora rammaricate perché non sognano quei cari con i quali vogliono ricongiungersi dopo la vita (“Non mi interessa vedere Dio: in Paradiso voglio ritrovare mamma, papà, Paolo e Camillo” dice Letizia).

Un film incredibile per come racconta la consapevole inadeguatezza di fratelli troppo che non hanno saputo dar retta ai tormenti di un ragazzo devastato dal terrore del fallimento. Più che un’indagine sui motivi di un gesto inaudito (l’incontro con la sorella di una fidanzata di Camillo è pura detection), questo film sembra quasi essere una riflessione sull’inevitabilità del gesto stesso, su una disperazione maturata in un contesto che non avrebbe potuto determinare altro che non fosse radicata infelicità, su un atto estremo che ognuno ha letto secondo i rispettivi bisogni. Con una naturalezza che ci appare sconvolgente, Marx può aspettare – un titolo che convoca l’ultima frase detta dal disimpegnato Camillo a Marco, all’epoca ultrasessantottino, poi citata in Gli occhi, la bocca – non è un film testamentario, malgrado l’anagrafe e il tema: il tono non è mai compiaciuto del dolore, lo slancio verso il futuro è un’attitudine spirituale, la terapia pubblica è un MacGuffin per far emergere l’impossibilità della cura.

Sembra piuttosto una liberazione, una resa dei conti con la facoltà attiva (lo è davvero?) dell’oblio, e in quanto tale è un film liberissimo che si eleva attraverso il prisma di cinque sopravvissuti e di tutti i loro morti. Ed è un film molto moderno, che chiamiamo documentario solo per convenzione perché qui la realtà trova nuova voce attraverso la mediazione del cinema, il luogo delle ombre e degli spettri. E il cinema di Marco Bellocchio, che è sempre più ossessionato dal bisogno di raccontarsi nella nudità delle sue inquietudini, ci appare qui finalmente in pace. Come si capisce nello struggente e stratificato finale di quello che è nitidamente un capolavoro: da una parte il tempo che passa, dall’altra quello cristallizzato in un ricordo finalmente disseppellito, e poi un uomo in fuga e un altro che sta tornando a casa.