“Ho cominciato a pensare di fare cinema in chiesa, da ragazzino, quando mi portavano alla messa”. Così racconta Mauro Bolognini alla giornalista Jolena Baldini che gli ha dedicato un libro-intervista, preziosissimo e dimenticato. Così germoglia la volontà del regista toscano, classe 1922, di intraprendere l’avventura cinematografica: dentro lo spazio circoscritto di un luogo. Non può essere un caso perché Mauro Bolognini è stato, prima che uomo di cinema, un uomo colto innamorato dell’arte, della letteratura, della vita quotidiana che vedeva riecheggiare nei quadri dei Macchiaioli, della storia umana quando è capace di rompere il vuoto di un dramma, sociale o privato. Studia architettura in una Firenze sofisticata e anacronistica, con Zeffirelli e Tosi: "Avevamo persino materie che non esistono nelle altre facoltà italiane […] Avevamo un esame importante che consisteva nel disegnare gli alberi, i visi, i corpi. Questa osservazione attenta ha molti rapporti con i film che faccio".
L’esordio alla regia avviene nel 1953 con il film Ci troviamo in galleria, una commedia musicale un poco sciatta e convenzionale la cui spia artistica si riscontra, più o meno dichiarata, nella capacità degli attori di impreziosire lo sviluppo narrativo: spiccano la canterina Nilla Pizzi, alla quale si devono i motivi del genere del film- canzone, Carlo Dapporto, emblematico protagonista del mondo dell’avanspettacolo di quegli anni e una giovane Sophia Loren, la soubrette che in una delle scene più memorabili della pellicola danza con un trio di finti negri chiamato “Trio Bava”, in omaggio a Mario, amico di Fulci, uno dei firmatari della sceneggiatura. Interessante anche la presenza di Gianni Cavalieri, il cuoco della trasposizione cinematografica di Miseria e nobilità di Scarpetta, e di Mario Carotenuto, qui l’impresario Tittoni che più tardi sarà l’avvocato De Marchis nell’indimenticabile Febbre da cavallo di Steno.
Ci troviamo in galleria avvicina idealmente due microcosmi, quello romano e quello napoletano (la canzone O’ciucciariello eseguita dalla Pizzi è la stessa intonata da Totò, Peppino e la…malafemmina nella scena simbolo a bordo di un calesse) e segna un inizio forse tiepido e accorto che poco ha a che fare con il cinema di Bolognini, ma risulta comunque stuzzicante poiché rivela un sguardo di intelligente ironia successivamente approfondito in commedie più significative come Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956), dal titolo di wertmulleriana memoria, Arrangiatevi (1959) con uno strepitoso Totò nei panni del padre del femmineo Peppino (De Filippo) di professione “callista” e Gran Bollito (1977) con un Pozzetto queer.
Bolognini si rivela presto un “manovratore” del tempo che giustappone armonicamente le partiture filmiche; il suo cinema è come una prova d’orchestra, il cui andamento musicale, allegro, adagio o andante viene tenuto e calibrato dalla maestria del suo direttore. Titoli come La vena d’oro (1955) e Gli innamorati (1956) sono finiti nel dimenticatoio sebbene anticipino, con le dovute precauzioni, certe atmosfere del cinema della modernità e gettino le basi di una cifra stilistica e tematica cara a gran parte della filmografia del regista pistoiese. Il dramma familiare ricamato intorno alla componente velatamente incestuosa de La vena d’oro si aggancia alla storia di formazione presente in Agostino, pellicola del ‘62, tratta dall’omonimo romanzo di Moravia mentre Gli innamorati si immette in un dibattito critico che tiene insieme sia il genere popolare che quel filone idilliaco e tenue denominato “neorealismo rosa”.
Gli stessi malesseri generazionali, ma in una dimensione sociale diversa, quella borghese, trovano una nuova ubicazione in Giovani mariti (1958): qui le tracce di un neorealismo epigonale, populista e scanzonato, lasciano spazio a un racconto sull’inconciliabilità (che assume anche una connotazione sessuale) dell’universo maschile con quello femminile. Lucca rievoca la natìa Pistoia, in un’atmosfera sognante ma amara, spettatrice silenziosa di una gioventù che deve far i conti con le sovrastrutture del mondo borghese agli albori del boom economico. Bolognini d’altro canto non calca i toni, preferisce un finale delicato e non perentorio che porta alla riflessione senza esaurirla.
Le tracce di un fiaba popolare dai toni più lirici, affini a un certo realismo poetico di stampo francese, si riscontrano nel 1957, l’anno di Marisa la civetta, interpretata da Marisa Allasio, la bionda burrosa di Poveri ma belli di Dino Risi dello stesso anno, orfana di ferroviere, autorizzata a vendere gelati e bibite sulla banchina della stazione di Civitavecchia. Pur venendo indebitamente demolito dalla critica dell’epoca che lo bollò come una plateale commediola del cattivo gusto, la pellicola apre la strada a una non transitoria collaborazione tra il giovane regista Bolognini e Pasolini, autore del soggetto e della sceneggiatura.
Le ambientazioni periferiche di Marisa la civetta lasciano intuire la presenza del Pasolini scrittore e futuro cineasta, la sua vocazione a narrare le increspature delle miserie umane, la cui prefigurazione è già percepibile nel tessuto d’insieme di altre due pellicole dirette da Bolognini, La notte brava (1959) e La giornata balorda (1960), entrambe portavoce di un neorealismo in fuga che si accinge a misurarsi con il cinema della modernità. Il palcoscenico di Marisa la civetta, popolato da marinai, calciatori, ferrovieri, orfanelle e marmocchi mostra i tratti tipici di un mélo smaliziato e allo stesso tempo tradizionale il cui baricentro risiede negli spostamenti turbolenti della protagonista, bella e in apparenza disinibita, certamente sola in un mondo fatto di uomini.
Lo sguardo di Bolognini sulla sessualità parte proprio dalla figura della Civetta, ma se nel 1957 l’eros è ancora al servizio di un rapporto impari ma legittimo tra l’uomo e la donna (Marisa potrebbe sottrarsi alla fuga d’amore con il suo marinaio ma non osa), a partire dagli anni Sessanta, diventa lo strumento per incriminare un’umanità fuorviata dalle costrizioni sociali, dal potere economico, religioso, familiare.
Esemplari in questo senso appaiono i drammi esistenziali de Il bell’Antonio (1960), La corruzione (1963) e Un bellissimo novembre (1969) dove i protagonisti incarnano l’essere da “scansare”, in lotta contro il mondo. Attraverso la necessità di obbedire alle proprie pulsioni, di sfuggire all’ordine prestabilito delle cose, le vicende “scandalose” dell’impotente Antonio, di Stefano che vuole farsi prete e di Nino, adolescente innamorato della zia, si fanno provocazione silenziosa, tentativo fallimentare di affermarsi come alterità. Colta la dolcezza maltrattata del viso insolitamente efebico di Marcello Mastroianni, la macchina da presa insegue, nella sequenza finale, la camminata di Antonio, figura di un’indolente discesa verso l’omologazione al pensiero catanese e rimozione simbolica della sua impotenza fisica e morale. Un inevitabile ritorno alla normalità. La stessa a cui giungono Stefano e Nino. Attingendo soprattutto al panorama letterario, lo scavo in un erotismo condizionato da una società che tende a traumatizzare e soffocare il desiderio, il ruolo che esso assume come mito e oggetto di consumo, rappresentano dunque il fil rouge che innerva moltissime opere attraverso cui Bolognini narra le contraddizioni del presente, ereditario di un passato odioso e meschino.
Da altra materia letteraria prendono corpo le sfumature della sottomissione maschile al potere femminile; nella prostituta Bianca de La viaccia (1961), nella sveviana Angiolina di Senilità (1962), entrambe interpretate da una seducente Claudia Cardinale, nella convulsa protagonista de L’assoluto naturale (1969), il film più martoriato e dimenticato di Bolognini e più tardi nella figura torva e arrivista di Irene Carelli, la Sanda de L’eredità Ferramonti (1976) e nell’harem osé di Per le antiche scale (1975). La parabola artistica degli anni ’60 include anche una manciata di film a episodi, molto in voga all’epoca, e due titoli, Madamigella di Maupin (1966) e Arabella (1967), notevoli soprattutto per la precisione della resa scenografica.
Sebbene la poetica di Bolognini non possa risaltare sotto una lente spiccatamente ideologica (ad altre erano riservati gli encomi della critica di sinistra), alcune opere degli anni ‘70 si stagliano prodigiosamente su un territorio che ammette uno scontro tra i bisogni del singolo e la collettività dove l’azione si fa autentica ribellione e l’atto connota l’indicazione di una realtà ribaltabile, almeno nelle intenzioni: in Metello (1970), con un inaspettato Massimo Ranieri, il velo dell’anarchia allenta la gravosità dell’universo borghese fino a quel momento raccontato; la perfezione figurativa la schiarisce ma non la cancella del tutto.
La nuance melodrammatica ripiomba con Bubù (1971); ritornano miseria e prostituzione, temi già affrontati, così come ritornano gli interpreti, Ranieri e Piccolo, del film precedente. Degno di nota è certamente il sottovalutato Libera, amore mio! (1975), cronaca di una battaglia contro le immoralità del fascismo in cui il tracollo degli ideali assume caratteri universali e paradossali. Dopo Imputazione di omicidio per uno studente (1972), esperimento “politico” non troppo riuscito, Bolognini gira nuovamente un dramma borghese nell’ottica di una visione critica: con Fatti di gente perbene (1974) mette in scena gli esiti di un delitto realmente accaduto ponendo l’accento sul profilo psicologico dei suoi allestitori e, come sempre, sulla sapienza della forma.
Le derive dell’erotismo luccicano scintillanti e decadenti ne La storia vera della signora delle camelie, pellicola dal respiro internazionale, che ragiona intorno alla vicissitudini della prostituta che ispirò il famoso romanzo di Dumas figlio, con una tisica Isabelle Huppert. Con La venexiana (1985) è un film dichiaratamente erotico, mentre con Mosca Addio del 1987, l’attrice bergmaniana par exellance, Liv Ullmann, calca la scena del cinema d’autore nostrano. Il settore dei lungometraggi scritti per il cinema si conclude con La villa del venerdì. Siamo nel ’91 e l’incompatibilità tra i due sessi appare irrisolvibile, stavolta definitiva.
La corposa filmografia del regista pistoiese, a cento anni dalla sua nascita, tuttora sfugge a una chiara e approfondita disamina. Eppure il suo impegno artistico ha attraversato quasi quarant’anni di storia novecentesca, approdando perfino al tempo in cui la televisione ha sostituito la realtà svalutando il racconto cinematografico.
Raffinato, censurato, talvolta manieristico, tecnicamente perfetto per la capacità di filmare senza sbavature, di dare pienezza e spessore compositivo alle immagini, Mauro Bolognini ha saputo raccogliere le eredità culturali dell’Italia postbellica, ritraendo con sapienza e senso critico la decadenza del mondo borghese fatto di uomini disorientati e soli, figli di una crisi che affonda le proprie radici nel racconto letterario dei grandi scrittori. Ha messo in scena la natura delle debolezze umane senza la perentorietà del giudizio, cercando, con sguardo da esteta, di disegnarne i contorni. Ha viaggiato a mezz’aria, tra l’alto e il basso, tra le mura di una città di provincia, tra una stazione ferroviaria e un porto. Il suo cinema ha corso tra la strada e una casa chiusa, popolare, borghese, aristocratica. Le sue città continueranno a delineare i confini entro cui le sue storie si sono accese e consumate, restituite attraverso una verosimiglianza storica di rara bellezza, che mai si potrà ricondurre a una vacua accuratezza stilistica.
Se sarà riscoperto come merita, i corpi e le parole dei suoi personaggi continueranno a raccontare dipendenze amorose, inquietudini vibranti di umanità; gli spazi in cui volteggiano ne determineranno, ancora una volta, la fisionomia, la riconoscibilità, la cifra estetica e morale.