Si è detto di recente che quello di Pasolini è un cinema prevalentemente maschile. Non solo per la scelta dei suoi eroi sottoproletari, ma per l’atteggiamento carnale con cui vengono raccontati, per il senso corporeo della loro esistenza filmica. Di questa prospettiva le figure femminili sono, specie nei suoi primi lavori, un riflesso ambivalente. In quelle donne al limite della periferia umana, le cui vite sono legate al volere dell’uomo, c’è un senso costante di angelico squallore, un sentore di bellezza corrotta: forse la stessa tensione di cui parla Oriana Fallaci nella sua violenta lettera a un Pasolini ormai defunto: «Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi, più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione».
L’elemento innegabilmente femminile del cinema di Pasolini si concretizza quindi nella dialettica tra grazia e orrore, in una visione a turno limpida e scabrosa, luminosa e scatologica. Una discrasia viva già, in misura minore, nella Stella di Accattone e in Mamma Roma, e che prima di raggiungere l’estremismo della Trilogia della Vita e di Salò viene espansa nell’universo mitologico di Edipo re e Medea. Con quest’ultimo film, in particolare, Pasolini stila nel 1969 il manifesto più algido della sua attrazione per le figure divistiche, trasfigurate sullo schermo nella forma di dolorosi riflessi materni – l’ombra della mamma Susanna, lo sappiamo, è sempre l’orizzonte femminile di riferimento nel suo cinema.
Quella di Pasolini è una Medea inevitabilmente post-Sessantotto, all’apice dell’ideologismo che nella produzione di fine anni Sessanta del regista diviene sempre più imperante. Con la figura della protagonista euripidea Pasolini porta alle estreme conseguenze il conflitto tra modernità e antichità del suo Edipo, condensando in lei il passaggio traumatico dalla civiltà animistica da cui la maga proviene a quella della borghesia omologatrice e consumistica di Giasone. È in fondo lo stesso Teorema, la stessa equazione ideologica che Pasolini racconta dal principio: Medea, che per rivalsa contro l’uomo civilizzato arriva a sacrificare la propria maternità, è l’antenata mitologica di quella Mamma Roma incagliata fra le proprie umili origini e l’orizzonte piccolo borghese a cui aspira.
Nella madre di Euripide risiede l’epicentro di questo scontro ideologico, che Pasolini sintetizza in forma ibrida, a metà fra il dramma filosofico e il saggio antropologico. Il film segue quindi nella struttura la propria dicotomia tematica, biforcandosi. Prima la Colchide brulla della Cappadocia e della Siria, metafora brutale del Terzo Mondo, tempio di una spiritualità metafisica e profondamente animista – «Tutto è santo» spiega il centauro Chirone a Giasone, che da questa religiosità è destinato a emanciparsi.
Poi Corinto, materializzata nella Piazza dei Miracoli di Pisa, immagine di una mitologia pragmatica, quasi turistica, lontanissima dalla sacralità viscerale della prima parte. Contro la Colchide «fatta di cose e non di pensieri», come direbbe Chirone, nell’architettura della città greca si attua il raziocinio moderno, nemico della confusione barbara e naturale della preistoria: Corinto è il regno di quel popolo che nel poemetto Picasso (da Le ceneri di Gramsci) Pasolini aveva definito «orda del sentire e del fare, non del credere».
Già in questa sua ambivalenza Medea si pone come il frutto di una forte schematizzazione, di una prospettiva intellettuale aguzza, evidente, geometrica. Una dialettica che appare oggi particolarmente programmatica negli intenti politici, espressione ultima di un Pasolini che cerca di conciliare a tutti i costi drammaturgia e ideologia, e che fa così di questo film mitologico la sua opera più chiusa e ragionata, sicuramente una delle sue meno accessibili.
Medea, si diceva, è però anche il trionfo della fascinazione divistica di Pasolini, che nella sua protagonista sublima il proprio contraddittorio ideale femminile. Non è un caso che il regista, sotto suggerimento di Renzo Rossellini, avesse scelto come eroina Maria Callas, che incarnava nella propria persona le due fazioni del racconto: cresciuta in una famiglia di immigrati greci e assunta poi alla gloria nazionalpopolare dell’opera lirica, Callas portava in sé la stessa geometrica doppiezza dell’operazione che Pasolini voleva compiere. La sua non è quindi una semplice interpretazione, ma lo specchio del film intero e, per estensione, il culmine della tensione femminile, barbara e Divina, di tutto il cinema di Pasolini.
Eppure, nel dirigere la sua primadonna, allo sguardo intellettuale del regista qualcosa sembra essere sfuggito. La Medea di Callas affascina più per la sua presenza scenica che per il controllo drammatico della cantante lirica. La sua figura, inquadrata dall’occhio rigido di Pasolini, sprigiona sullo schermo una carica melodrammatica che risulta in un’interpretazione diseguale, imprevedibile: forse è per questo che l’autore, nella versione italiana del film, aveva preferito al doppiaggio originale dell’attrice quello più “professionale” di Rita Savagnone. Anche priva della sua voce inconfondibile, però, Callas-Medea porta in sé un sentimento che riesce a svincolarsi dalla costruzione drammaturgica del racconto: artefatta quando dovrebbe essere naturale, congelata quando la scena richiederebbe ardore, la sua performance è l’anima viva e contraddittoria di una pellicola rigorosa fino all’astrazione.
L’ironia vuole che Callas, nel vivo del dolore per la rottura con Aristotele Onassis, si fosse invaghita di Pasolini durante la lavorazione del film; il regista, d’altra parte, nutriva per l’attrice un affetto chiaramente amicale, ma sentito e profondissimo – «Stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me», le scriverà in una lettera. A voler essere un poco romanzeschi c’è in questo innamoramento impossibile, naïf ma appassionato, il simbolo della visione scostante e difficoltosa che scaturisce dalla Medea di Callas. E forse è questo il motivo per cui, oggi, la sua performance ci appare soffocante, altalenante, fuori luogo a tratti, ma sempre e comunque presente a se stessa, alla propria intimità romantica.
Nella sua Medea imperfetta e teatrale c’è l’immagine, esasperata oltre i confini del dramma euripideo, del rapporto di Pasolini con tutte le sue attrici e con tutte le sue tragiche figure femminili. Solo grazie a lui Maria Callas avrebbe potuto creare un personaggio così monolitico e indimenticabile: un’antieroina squilibrata che, a più di cinquant’anni dalla sua comparsa sugli schermi, trova ancora nell’irrequietezza la sua terrificante rivincita amorosa.