Tra il 1929 e il 1941, il regista georgiano Kote Mikaberidze realizzò meno di dieci film. Morì nel 1973, e proprio in quel decennio i cinefili riscoprirono il suo esordio: infatti, dopo una censura lunga più di quarant’anni, Moya babushka (tradotto è Mia nonna) riapparve nel 1976, ricostruito ed accompagnato da un nuovo commento musicale accostabile alle atmosfere del Charleston. A rivederlo oggi, sembra un oggetto indecifrabile, planato dal passato con la curiosa patente dell’opera pionieristica e, se non incompresa, comunque osteggiata da un regime indisponibile a scherzare sull’apparato.

Si tratta, appunto, di un’originale e grottesca satira della burocrazia sovietica, con al centro le disavventure di un funzionario ministeriale che somiglia ad Harold Lloyd e la sua scompigliata e scatenata consorte attratta dalle frenesie della vita borghese. Film acutamente teorico anche perché al servizio di un intrattenimento esaltato ed eccitante, Mia nonna è un saggio sul mestiere dell’attore secondo la visione sperimentale della FEKS (la “Fabbrica dell’Attore Eccentrico”): ogni personaggio è chiamato ad incarnare un’iperbole, riferita da elementi come i capelli arruffati o gli occhiali quadrati, rifiutando quel realismo considerato inadatto a raccontare una storia così stravagante. Col senno di poi, ci si chiede quanto sia stata davvero recepita la portata creativa di questo caleidoscopio di innovazioni, in cui le maschere della burocrazia si ritrovano dentro scenografie stilizzate e prospettive oblique che smontano la realtà per ridarle un nuovo, impudente, audace senso.

Tra attimi di pura follia (la statua che si rivela umana e scende dal piedistallo per redarguire il povero funzionario), intrecci di scala escheriane e primi piani con spudorate dentature, degli eventi che si dispiegano in questo ufficio di Gogol’ arredato da Kafka restano nella memoria i momenti che coreografano l’aggrovigliato, pedante, assurdo lavoro burocratico: le grandi sedie con le porte a mo’ di schienali, il funzionario che scivola e risale lungo la ringhiera della scalinata, la liturgia dell’attesa del prossimo atto statale naturalmente superfluo ed autoreferenziale. E che feroce delizia il finale con gli uomini che, schiacciati sulle pareti, diventano ombre di un’ideale animazione.