Parlare di malattia mentale, in Italia, si può. Scritture delicate e brillanti sull’argomento ce ne sono state e se ne faranno. Anche il film di Roberto Capucci tenta di affrontare una scienza complessa e difficile, per molti aspetti considerata ancora un tabù: perciò, portare sullo schermo tutte le quelle forme fragili della malattia mentale significa saper bilanciare attentamente ogni parte della narrazione per non rischiare di cadere nel ridicolo o nell’eccessivo buonismo.

L’intreccio ruota sul rapporto frammentato tra due fratelli, Nik (Alessandro Preziosi) e Tesla (Claudia Pandolfi), che non si sono incontrati per vent’anni, complice un profondo dolore che ha sconvolto la vita di Nik, allontanatosi da tutto e da tutti per condurre una vita di eccessi e sregolatezze. Con la morte del padre, un eccentrico astrofisico, i due sono costretti a una convivenza forzata, conseguenza dell’ultima, apparentemente utopica volontà del padre di farli riconciliare. Se Nik nasconde un doloroso segreto che lo ha portato ad essere quello che è, Tesla, altrettanto, cerca di celare al fratello la sua interiorità tormentata e il fatto che il figlio adolescente Sebastiano (Francesco Cavallo) sia affetto da schizofrenia.

Il personaggio di Sebastiano è scritto con dovizia di consulenze con psichiatri e di un lavoro di ricerca nei meandri oscuri della mente. Colloqui con medici, specialisti e pazienti hanno dato forma a un ragazzo dotato di un’intelligenza e di una sensibilità fuori dal comune, con un sogno: lasciare questa terra ed essere il primo a colonizzare Marte. Tutti fanno “sì sì” con la testa e lo lasciano fare, segregato nella sua stanza che puzza di chiuso e vestiti sporchi. Non viene incoraggiato ma nemmeno smentito e l’unico modo che ha per comunicare con il mondo esterno è la musica classica e lo studio costante del violoncello che lo porta a sviluppare un unico e raro talento musicale.

La costruzione di un personaggio così complesso eppure così umano, che ci riempie di fitti e sconnessi dialoghi con la voce nella sua testa, viene però accantonata e messa in secondo piano. Peccato, perché da un certo punto in poi di Mio fratello, mia sorella, Sebastiano diventa solo il pretesto e il “collante” per risanare i rapporti tra due poli opposti accomunati da continue sofferenze.

Parlavamo all’inizio del saper bilanciare il racconto. Qui la scrittura viene salvata dalle buone prove attoriali di Preziosi, Pandolfi e Cavallo, che non fanno degenerare il racconto in qualcosa di melenso. Il dramma c’è ed è arricchito da continui ostacoli e incomprensioni famigliari, da scontri generazionali e dall’incomunicabilità generata dai rapporti corrosi dal tempo.

Se però fortunatamente Mio fratello, mia sorella non cede all’ostentazione dei buoni sentimenti, purtroppo la storia scivola nella prevedibilità e verso un finale troppo frettoloso e rapido che lascia sospeso un interrogativo: “E quindi?”. Così, soprattutto per le logiche con cui il racconto si snoda, il film è forse adatto a un certo tipo di pubblico più generalista e meno pretenzioso. È chiaro, la pellicola di Capucci ha intenzioni più che nobili. Eppure si ha l’impressione che di malattia mentale si sarebbe potuto parlare di più.