In queste ultime settimane di uscite cinematografiche, lo split screen sembra essere tornato come accorgimento stilistico prediletto. Non sono pochi i film che ne hanno fatto uso. Se si pensa a qualche titolo, Vortex e Omicidio nel West End sono i primi due che saltano alla mente e, seppur diversissimi, riescono a dirci qualcosa sul cinema contemporaneo. Stando a un ragionamento generale, la differenza principale tra i due film sta nella giustificazione del mezzo e della scelta stilistica. Se da un lato Omicidio nel West End sceglie lo split screen come impreziosimento stilistico divertito, per imporre un’identità, un tone of voice (in tutto e per tutto una pratica di branding) che guarda molto alla commedia postmoderna e autoironica di Wes Anderson, Vortex invece mette in campo una vera e propria riflessione sul dispositivo e un particolare cambio di registro in quella che è l’idea di cinema del regista.

Con questo suo ultimo film (disponibile su MUBI) Gaspar Noé compie un piccolo, ma radicale, cambio di direzione nel suo modo di fare regia e di concepire il cinema stesso. La scelta dello split screen oggi – già messo alla prova nel precedente mediometraggio Lux Æterna e qui scelto come strumento per definire e relazionare una coppia di anziani – ribalta la sua “monovisione” e l’esperienza ricorrente del suo cinema che forza un punto di vista obbligato – che sia la soggettiva di un uomo che muore (Enter the Void) o gli otto minuti senza tagli di uno stupro (insieme a tutti gli altri piano sequenza di Irréversible) – per mettere in scena un’opera opposta che è la somma di più sguardi, di più quadri (cinémi, direbbe Pasolini).

Se con i suoi primi film l’esperienza era più paragonabile a qualcosa da cui non si poteva fuggire, immagini che si era obbligati a fissare anche quando qualcosa ti spingeva a distogliere lo sguardo, ora l’approccio cambia radicalmente. I punti di interesse diventano molteplici (e non sempre solo due). Se in una scena una donna cammina a vuoto, reiterando il senso di spaesamento da demenza senile, un uomo guarda uno schermo, lo schermo trasmette Vampyr di Dreyer e così via.

La frustrazione generata dal film di Noé non è più frutto dell’impossibilità di sfuggire allo sguardo obbligato, ma dall’impossibilità di inglobare, in un'unica visione, tutto ciò che viene proposto, tutto ciò che si genera e rigenera. L’apertura alla complessità e soprattutto alla molteplicità delle cose e delle esperienze, anche in piccoli nuclei privati e familiari come questi, dice chiaramente una cosa: non esiste più un'unica visione e l’apertura all’altro non è più riducibile al semplice controcampo.

Non è forse lo stesso discorso che fa un altro film uscito in queste settimane come Everything Everywhere All at Once? E forse non è un caso che anche qui venga scelto lo split screen come mezzo per introdurre la presa di coscienza della protagonista sui multiversi, tema che in questo film prova ad essere portato fuori dal suo spazio canonico dei cinecomic, riuscendoci per metà e quindi ritrovandosi come questi ultimi ad essere più palestra estetica (si veda la sequenza del primo “salto di universo” di Doctor Strange nel Multiverso della Follia) e un sunto (che ormai diventa ripetizione) di complessità, metatestualità, intertestualità.

La duplicazione dell’inquadratura diventa ancora moltiplicazione di sguardi, universi, possibilità e non solo una semplice messa in relazione di distanza spazio temporale. Ma la differenza tra il film di Noé e questo “cinema dei multiversi” è che nel primo la complessità e la moltitudine sta nel dispositivo, mentre nei secondi è spesso oggetto di una visione singola che, in un modo o nell’altro, ne racchiude tante.

Il punto è lo stesso, centrale e ricorrente nel cinema contemporaneo, ma la forza del regista francese può ricordarci che non servono multiversi per includere nella stessa inquadratura il nulla e il tutto, l’oblio e i sogni, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. E che questo acquisisce senso proprio nella visione totalizzante che non può mai essere completa.