Il nome di Henry King, artigiano d’eccezione della golden age hollywoodiana, sinonimo di studio system e solido mestiere, si associa sovente a paesaggi maiuscoli: esotici – l’Italia contadina di Romola (1924) e l’Africa assolata di Le nevi del Chilimangiaro (1952) – o americani – la wilderness dei suoi tanti western, o le catastrofi dei disaster movie –, ma comunque sconvolti da una natura struggente e selvaggia.

Niente di più lontano dall’immaginario che fa da sfondo a Montagne russe (1933), film d’apertura della sezione dedicata a Henry King, che a dispetto del titolo italiano è un’operetta mite e garbata, informata di sentimenti delicati e sani valori americani. La sua ambientazione è la corn belt sconquassata dai tornado, eppure infine restituita alla misura rassicurante di locus amoenus («no place is like home», avrebbe detto qualche anno più tardi Judy Garland ne Il mago di Oz): ci piace anzi pensare alla state fair del titolo originale come all’antecedente in miniatura della grande fiera di Incontriamoci a Saint Louis, altro inno d’amore agli States bucolici, con buona pace delle metropoli brulicanti di vita. L’America rurale e idilliaca è proprio il cuore pulsante di Montagne russe, che imbastisce silenzioso un racconto di adamantina semplicità: lo script asciutto e preciso, la direzione misurata degli interpreti, la grammatica filmica piana sono al servizio delle scorribande sentimentali di una famigliola affiatata, con tanto di padre bisbetico e figlioletta in età da marito.

Will Rogers, alla sua seconda collaborazione con King dopo il muto La nipote parigina (1925), è l’autoparodia dichiarata della propria figura di divo ruspante e campagnolo, che gli valse il nomignolo di “figlio prediletto dell’Oklahoma”: il suo personaggio, ossessionato dalle competizioni di suini, è il leggero controcanto comico a un’opera in grado di calibrare i toni sfumati del mélo a uno humor pauperistico e vincente, che raggiunge le sue vette in uno spassoso controcampo tra scrofa & maiale (boy meets girl in salsa agreste…). Ma altrettanto lucente risplende la stella di Janet Gaynor, eroina vivace di una storia d’amore che esige il nuziale happy end, e si barcamena allegramente tra slanci di vitalismo e pudori improvvisi (il film, girato in era pre-codice Hays, fu poi sottoposto a censura in vista della ridistribuzione del 1934: l’espunzione di alcune scene non si sconta narrativamente, ma comporta cambi di passo singolari).

Opera gioiosa e delicata, Montagne russe conquistò una candidatura all’Oscar e ispirò due remake (entrambi musical, nel 1945 e nel 1962): a conferma che per l’America delle campagne, flagellata dalla Grande Depressione, «nessun posto è come casa».