Esattamente come l'Adagietto della Quinta di Mahler che lo accompagna, uno schiudersi lentissimo, una luce fioca che dal nero pian piano illumina tutto, così l'assolvenza che apre Morte a Venezia sfuma dal nero dello schermo verso un'alba veneziana che sembra uscita dalle mani di Turner (e invece è merito di Pasqualino De Santis), con un impasto di colori caldi che si disfano uno nell'altro. Percepiamo subito un sorprendente senso di inquietudine sotterranea, insinuante, come se la bellezza di quelle immagini mascherasse un'insidia, un dramma nascosto che ancora non ci è chiaro. Quando la macchina da presa si sposta su Gustav von Aschenbach (Dirk Bogarde), seduto sul battello che sta entrando a Venezia, capiamo dal suo sguardo che quell'inquietudine, a cui la musica di Mahler ci stava preparando, è tutta interna al protagonista.

La poltroncina di vimini sui cui siede mostra una slabbratura, un punto rotto, un cedimento.  Una crepa che rompe la pacifica continuità della trama. Più che un indizio, un segno, diremmo quasi un sintomo: un dettaglio assolutamente significante, specchio deformante della rispettabile e trattenuta eleganza che mostra il protagonista. Dai titoli di testa a questo incipit sono passati solo cinque minuti, ma senza rendercene conto,  sappiamo già tutto.

Il protagonista della pellicola di Visconti è un musicista dei primi del novecento (era invece uno scrittore nel quasi omonimo racconto di Thomas Mann da cui è tratto il film ma l'eco di Mahler riecheggia anche nelle pagine del libro, così da suggerire a Visconti un legittimo slittamento fra letteratura e musica) che viaggia verso Venezia nel tentativo di riposarsi e ristabilirsi fisicamente. Tuttavia da alcuni flashback ci rendiamo conto che la vera malattia che cerca di combattere, la natura più profonda del suo crollo fisico, è tutta intellettuale, interiore, esistenziale e riguarda una ossessiva ricerca, nella propria arte, di un ideale di bellezza assoluto, apollineo, incorruttibile dai sensi, altamente morale.

Durante la sua permanenza a Venezia in un grande albergo, si accorge della presenza di Tadzio, un giovane ragazzo di una ricca famiglia polacca e ne è subito affascinato. L'ideale di bellezza classica che gli pare egli incarni lo travolge. La sua ricerca estetica, dapprima tutta interiore si estrinseca ora in una fascinazione vieppiù lacerante verso la figura di questo efebico ragazzino. Turbato dalle pulsioni che suscita in lui questa attrazione, cerca di lasciare la città ma un disguido con i suoi bagagli gli impedisce di andarsene.

Un interessante elemento di riflessione risiede proprio in questa idea di un destino quasi già scritto, rappresentato dalla difficoltà di lasciare il luogo di tanto turbamento. Non si tratta di un semplice evento imprevisto ma di un segno. La realtà, in tutta la sua cruda e inascoltata verità, parla al protagonista obbligandolo a fare i conti con la sua identità più nascosta. Non è dunque possibile fuggire dal nodo problematico della nostra ricerca esistenziale. Così Aschenbach resta e sceglie in qualche modo di soccombere all'oggetto della sua malattia mortale.

Nel frattempo a Venezia divampa una epidemia di colera (un colera morale lo definirà Moravia  scrivendo del film), del quale le autorità cercano di sminuire la gravità, ma pur avvertendone il vero pericolo, il protagonista nuovamente cede alla possibilità della malattia, pur di concedersi altro tempo per per continuare questo inesausto pedinamento di sguardi con il giovane.

Nell'avvicinarci a questo film, in cerca di prospettive critiche con cui confrontarci, abbiamo ripreso in mano gli scritti di Adelio Ferrero, importante critico e docente di storia del cinema all'Università di Bologna e Pavia, che ci sono apparsi straordinari nella loro capacità di aprire continuamente nuovi percorsi di riflessione e indagine: un solco su cui ci piace ancora oggi incamminarci. Acuto studioso, fra i tanti, proprio di Visconti, Ferrero rilevò, non senza una certa severità, che “...il nucleo più vero del film, esiguo ma autentico è [da cercare] nella straordinaria discrezione con cui il regista segue il penoso itinerario del personaggio dietro l'oggetto della sua passione, il suo affannarsi impacciato e febbrile attraverso le piazze e i campielli di una Venezia infetta e funerea o il suo smarrimento nella solitudine di una spiaggia troppo sfolgorante.”

Questo conflitto fra una passione che divampa, inconfessabile ma irrefrenabile e il tentativo tutto intellettuale di giustificarla, controllarla e infine mascherarla, sfocia in Aschenbach nel desiderio di forzare l'estetica del proprio volto dipingendola con un cerone bianco, colorando le labbra con un rosso acceso, nel tentativo forse di sottrarre il suo volto alla caducità del tempo, un imbellettamento alla moda che più semplicemente dissimula ciò che non può rivelare. La scelta di questa forzatura estetica, questa sorta di maschera che suo malgrado rivela assai più di quanto non si illuda di nascondere, richiama ellitticamente un personaggio che Aschenbach aveva incontrato appena sbarcato a Venezia anch'egli truccato nel medesimo modo ma che allora, forte ancora della propria sbandierata tempra morale, gli aveva procurato un senso di disgusto e repulsione. Ancora una volta ci accorgiamo che le tappe del percorso del protagonista erano in qualche modo già state tracciate. Le carte erano già tutte sul tavolo, fin dalle prime scene.

Ancora Ferrero: “Venuta meno l'ironia stilistica, calibratissimo antidoto che Mann opponeva ai veleni della propria materia, resta, in Visconti, una singolare misura di tristezza e crudeltà, di dolente compatimento e di furiosa volontà di derisione della rispettabilità fisica e intellettuale del personaggio...”. D'altra parte per Visconti “...la pietà viene sempre e soltanto dopo lo smascheramento” e in effetti è davvero impietoso il modo attraverso cui Visconti mette a nudo le fragilità del protagonista, quasi a rimproverargli, non tanto il suo rigore morale (che già nei flashback gli veniva rimproverato da Alfred, suo amico e confidente), ma la sua ostinata e severissima indisponibilità ad ogni contatto con la realtà viva e pulsante e alle sue insanabili ma straordinariamente fertili contraddizioni.   

Ferrero parla infatti a ragione di “accanimento” da parte di Visconti che “mentre partecipa della sfatta esaltazione senile del personaggio, ne contempla  il delirio e la decadenza”. Forse il giovane Tadzio per Aschenbach è soprattutto uno specchio (che sia per questo che i due non entrano mai davvero in contatto?), un modo attraverso il quale egli riesce a vedersi per come è davvero, un riflesso rivelatore di una verità interiore inesplorata e forse, per lui, inesplorabile. Vedersi e riconoscersi come sappiamo non equivale ad accettarsi e dunque occorre forse fingere per rendersi tollerabili prima di tutto a se stessi, coprire, mascherare, simulare un contegno.

Dunque quello che ci propone Visconti è anche, se non soprattutto, un percorso di disvelamento di sé: un progressivo crollo delle sovrastrutture culturali e morali che vengono erose pian piano dall'eterea figura di un ragazzo, che si credeva simbolo di una bellezza ideale e si scopre invece sintomo di un desiderio di vita. Nella funerea e struggente scena finale, il regista ci mostra una riga di tintura per capelli colare sul viso bianco di cerone del protagonista, mentre febbrilmente cerca con lo sguardo il suo amato Tadzio che è troppo lontano per poter ricambiare, riuscendo solo ad apparire come un'ombra che si staglia al tramonto, sul mare, reso ormai una tela astratta, fatta di vibranti giochi di luce e sfumature di colore. Liberato dallo sguardo del protagonista, egli, semplicemente, si dissolve. Così, mentre un'alba ci introduceva nel racconto, un tramonto lo conclude.

Ecco che l'assolvenza iniziale, quel gesto cinematografico così pregnante con cui si apriva il film ci sembra possa essere quasi una dichiarazione di intenti, un modo per  segnalare che ci troviamo davanti ad un vero percorso di assoluzione, nel quale si tenterà di sciogliere qualcuno da un vincolo, da qualcosa che lo lega, lo blocca, gli impedisce di esistere davvero. Un tentativo di liberare nella segreta consapevolezza dell'impossibilità di far vivere.

Le citazioni dagli scritti di Adelio Ferrero sono tratte da: “La parabola di Visconti” contenuto in Storia del cinema, Volume II, Marsilio 1978 (Venezia) e da “Visconti: Morte a Venezia”, uscito l'11 aprile 1971 col titolo “Da Mann a Visconti”, ora in Dal cinema al cinema, cronache di TV, teatro, cinema 1960 - 1972, Longanesi 1980 (Milano).