Secondo Josephine Woll, professoressa di lingua russa ad Harvard e critica cinematografica, il bianco e nero veniva utilizzato dai cineasti del disgelo promosso da Nikita Chruschev che si sforzavano di soddisfare l’enorme domanda popolare di verismo. La studiosa ha notato che “paradossalmente, sebbene il film in bianco e nero privi lo spettatore di una caratteristica centrale della realtà oggettiva, questo affermi la veridicità di ciò che è sullo schermo.”

È un discorso del secolo scorso, riguardante un’altra cinematografia, ma la visione di Mother Lode rende problematico l’approccio a questa considerazione sul bianco e nero. Siamo di fronte ad un documentario con una precisa struttura estetica? Lo sguardo di Matteo Tortone è sicuramente è quello di un documentarista, ma quello che accompagna il viaggio di Jorge verso e dentro la miniera nei dintorni della Rinconada, in Perù. Un luogo infernale, popolato dalla vana speranza di arricchirsi con dell’oro da estrarre nelle viscera della terra compromettendo la propria salute.

Alcuni potrebbero a ragione pensare che la colpa sia di un insediamento sorto esclusivamente in funzione dell’estrazione del materiale prezioso, decadente fin dalla sua costituzione e inospitale per morfologia del territorio. Ma le persone che lo abitano scomodano il Diavolo, colui che promette ricchezza chiedendo in cambio un dazio irragionevole, per rendere comprensibile una realtà fisiologicamente insostenibile. Accompagnando Jorge, si fa la conoscenza non di un individuo specifico ma di un gruppo sociale che ha scelto per disperazione di seguire un’illusione. D’altronde non ci sono interpreti professionisti, José Luis Nazario Campos è per noi Jorge, ma anche uno dei tanti a cui è stato affidato il compito di portavoce di una desolazione in cui è attecchito del crudele realismo magico.

È un bianco e nero con delle sfumature originali che rendono Mother Lode un prodotto audiovisivo osmotico. La finzione costruita è talmente ingenua, talmente folcloristica, da diluirsi con estrema naturalezza in una dimensione intima fatta di spazi interstiziali dell’anima. Ha senso chiedersi se un racconto di questo tipo precluda una caratteristica centrale della realtà oggettiva? Sembra invece che il lavoro sulla fotografia aggiunga, oltre alla garanzia di veridicità, anche un portato significativo di mistero come qualità decisiva dell’esperienza umana. Il Pagacho, il tributo rituale in carne ed ossa richiesto dal Tio de la Mina per aumentare la quantità d’oro nella miniera, aleggia infatti nel commento incessante della voce narrante che sorregge il film.

Siamo di fronte, insomma, ad un bianco e nero che tradisce la menzogna dietro alla sua presunta natura bipolare per consentire a Matteo Tortone di portare il suo Mother Lode nel paradiso del diavolo più vicino al cielo.