Come il cappello nuovo indossato dal paterno Bruce Willis all’inizio del film, è tutto pulito e perfetto in Motherless Brooklyn – I segreti di una città, film d’apertura della Festa del cinema di Roma. Un noir color pastello filtrato attraverso la linea chiara di Hergé, dove un Edward Norton-Tintin si muove tra gli scatti e le imprecazioni del suo dolente detective con la sindrome di Tourette. In questa New York anni ’50 con malfamate strade di periferia lucide come la hall di un Grand Hotel, palazzi cadenti verniciati di fresco e abiti sempre impeccabili, si costruisce un intrigo di omicidi e ricatti legato al potente capo dell’edilizia comunale.

Norton inseguiva da due decenni il progetto di trasformare in un film il romanzo di Jonathan Lethem, arrivando dopo molti ripensamenti a scriverne la sceneggiatura, interpretarlo e curarne la regia. I debiti verso il cinema classico sono evidenti e per niente nascosti, tanto che l’azione è spostata dagli anni ’90 dei lupi di Wall Street all’America prosperosa e apparentemente felicissima del secondo dopoguerra. Un’inversione rispetto i topoi del genere Norton la cerca nelle dinamiche dei personaggi, con un detective malato tutt’altro che hard boiled e una femme per niente fatale, salvifica invece che tentatrice. La riflessione, attualissima, sul potere e sull’emarginazione, sul nuovo e perfetto che vuole sostituire il vecchio e l’imperfetto, si perde però in un diluvio di parole, profuse dai protagonisti nel tentativo di spiegare una storia che rimane comunque oscura e – inutilmente – macchinosa. Come se Hawks avesse impantanato di chiacchiere Il grande sonno cercando di spiegare ogni dettaglio della sua meravigliosa confusione. Senza scomodare i mostri sacri, ci saremmo accontentati del ritmo di un L.A. Confidential, altro noir citazionista ma dotato di tutt’altra forza drammatica.

In questo film senza silenzi (con tanto di voce fuori campo e musica jazz, bellissima ma invadente, a riempire le poche scene prive di dialoghi) anche le emozioni sono più spiegate a parole che percepite e si ha come l’impressione che i tre Norton – sceneggiatore, regista e attore – non siano riusciti a mettere un freno agli eccessi e ai difetti l’uno dell’altro. Il più colpevole sembra il Norton regista, incerto sul tono da seguire, preoccupato più del perfetto décor d’epoca che della tenuta narrativa, incapace sia di tagliare personaggi e scene inutili dalla verbosa sceneggiatura sia di mettere un freno all’istrionismo del suo attore protagonista che, concentratissimo ad evitare il ridicolo, si dimentica però di dare spessore drammatico al personaggio. Gli altri interpreti, da Willem Dafoe a Gugu Mbatha-Raw, con Alec Baldwin un gradino sopra tutti, sono bravissimi ma sembrano andare ognuno per conto proprio, impegnati in una serie di monologhi solitari che (s)compongono una storia che non coinvolge né loro né noi. L’effetto finale è quello di tante belle statuine in un immacolato, ineccepibile, congelato, museo delle cere, pieno di lunghi cartelli esplicativi, dove lo spettatore si muove letargico e un po’ annoiato cercando di raggiungere l’uscita.