“Papà era alto un metro e novanta e con gambe lunghe, più alto, più forte e con una voce più bella di chiunque altro (...) diceva sempre che avrebbe voluto essere un pittore, ma che non sarebbe mai stato grande in questo, e così divenne un regista.”(Anjelica Huston)
Tanto vale dimenticare, o almeno mettere subito fra parentesi, che Moulin Rouge (1952) sia una biografia di Henri de Toulouse-Lautrec, il pittore della vita notturna parigina nella belle époque. Del resto, tolto un altro film biografico nel '98, un po' tutte le apparizioni cinematografiche di Lautrec pendono più sull'emblematico che sul documentario, piccoli cameo di un'icona pittorica-pittoresca sempre buona per impreziosire discorsi sulla Vita e l'Arte, il Vero e il Falso. C'è quello visivo in Midnight in Paris (2011) di Woody Allen e quello solo aurale, travolgente, nel dialogo fra un falsario e sua figlia Audrey Hepburn in Come rubare un milione di dollari e vivere felici (1966) di Wyler ("i mei Lautrec sono molto meglio di quelli di quel nano francese!!!").
Moulin Rouge racconta un grande artista visuale, alcolista, ateo e scettico, abituato dal suo rango patrizio al suono dei corni della caccia alla volpe, sempre in allegrissima compagnia ma dal cuore indurito e solitario. Se è praticamente impossibile mettere in scena l'arte senza discuterla, a chiunque abbia familiarità con l'immagine personale - oltre ai film - del pittore mancato John Huston, questi pochi riferimenti basteranno per subodorare un autobiografismo. Altro dettaglio la bellissima voce bassa e secca di cui parla la figlia Anjelica, tratto distintivo rifluito - intenzionalmente o come per osmosi? - nel timbro e nella dizione del protagonista Jose Ferrer, al punto che, chiudendo gli occhi, si giurerebbe di sentirlo.
Una cosa invece stona, ma stona tanto da essere perfetta: Huston era un uomo altissimo, mentre Lautrec, come ben noto, a stento superava il metro e cinquanta. Nel film il dato fisico della statura del pittore si carica di una precisa valenza simbolica. Figlio del "matrimonio sbagliato" fra due cugini di primo grado, dopo una caduta in cui si frattura entrambi i femori si scopre affetto da malformazione congenita. La notizia causa il crudele abbandono da parte della sua compagna di giochi ed amore infantile, che gli dà dello "storpio" incorniciata come in un ritratto dalle spire di ferro di un paravento. L'artista del Moulin Rouge nasce assieme allo zoppo, sulle ceneri di un amore bruciato da due lati. La deformità è una categoria esistenziale (e com'è buffo che quello che guardiamo sia in realtà un attore perfettamente sano, il suo nanismo un'illusione d'artista).
"Ciò che le persone fanno è spesso migliore di ciò che sono", ma ciò che certe persone fanno è anche ciò che resta in eterno (la statua greca, i mille riferimenti all'immortalità di Leonardo) - senza il buffo omino vestito di nero a dipingerle, con a fianco il suo bicchiere d'assenzio e tutto il disprezzo ironico per un amore che ha deciso di non lasciar più entrare, forse le ragazze del Moulin Rouge vacillerebbero a forza di cercarlo inutilmente nella “giungla della città” (altra autocitazione), come quella che lui trova delirante, non a caso, ai piedi di un lampione fulminato. Anni dopo in Città amara (Fat City, 1970) Huston filmerà un pugile battuto che avanza silenzioso fra i neon che si spengono, immagine di sconfitta fra le più sublimi della storia del cinema. Qui, quando all'orario di chiusura Lautrec esce dal Moulin Rouge, le luci rosse e oro del locale, per sempre accese nei suoi quadri, si spengono al suo passaggio una dopo l'altra.