Dopo una prima fase stilistica – da Il rossetto a La noia – che può ascriversi a una sorta di Nouvelle Vague italiana, con indagini psicologiche ed esistenziali à la Godard e Antonioni, il cinema di Damiano Damiani evolve in una seconda, quella più celebre, corposa e influente, che lo ha consacrato come uno dei maestri italiani del cinema d’impegno civile. La svolta avviene con Quien sabe? (uno dei primi western marcatamente politici) e soprattutto con Il giorno della civetta (tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia) e La moglie più bella, due film seminali per tutta la sua futura cinematografia.

L’anno 1971 segna poi il momento di una nuova svolta per il regista di Pordenone, con quel capolavoro mai abbastanza celebrato che è Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica: con questo film, Damiani prosegue l’indagine sul fenomeno mafioso e politico, ma si affranca definitivamente dalle vestigia del cinema passato per dare vita a qualcosa di nuovo, mai visto prima di allora in Italia, cioè il poliziesco di impegno civile, con quell’unione misurata fra denuncia e spettacolo che sarà la colonna portante di quasi tutti i suoi film successivi.

Co-sceneggiata dallo stesso autore, la vicenda è ambientata a Palermo nei primi anni Settanta, quando il commissario Giacomo Bonavia (Martin Balsam) sta cercando in ogni modo di incriminare il costruttore edile Ferdinando Lomunno, un mafioso che gode di potenti protezioni politiche e che è diventato per questo motivo intoccabile. La lotta fra i due prosegue da anni, in particolare da quando il malavitoso fece uccidere un sindacalista amico del poliziotto, il quale non ha però mai trovato le prove dei suoi misfatti.

Per eliminare Lomunno, Bonavia arriva al punto di far dimettere dal manicomio un detenuto che ha dei conti in sospeso col mafioso, confidando in una sua vendetta, ma l’attentato non va a buon fine. Sulla sparatoria è chiamato a indagare il sostituto procuratore Traini (Franco Nero), che al contrario del cinico commissario crede ancora nella giustizia e nei processi. Durante le indagini, fra Traini e Bonavia si instaura una diffidenza reciproca: ciascuno dei due sospetta che l’altro sia corrotto e strumentalizzato dalla malavita, così si spiano a vicenda, e proseguono a modo loro la lotta contro il boss e i suoi complici, fino alle estreme conseguenze.

Il cinema di Damiani – parliamo di quello che va dalla Confessione ad altre pietre miliari come Perché si uccide un magistrato, Io ho paura e L’avvertimento, fino agli epigoni – è un cinema basato su un compromesso, su un’armoniosa intersezione fra cinema “alto” e cinema “popolare”, fra “autore” e “genere”, definizioni ormai ridotte a etichette che lasciano il tempo che trovano. Perché Damiani, con un pugno di film, è stato in grado di unire un tipo di cinema poliziesco e spettacolare con acute indagini sui fenomeni più scottanti dell’Italia di allora, e che trovano un’inquietante corrispondenza anche in quella di oggi – la Mafia, i legami tra criminalità organizzata e politica, la corruzione, la malagiustizia, il sistema carcerario, il terrorismo e i servizi segreti deviati.

Il giorno della civetta rappresenta un tipo di cinema avvincente e avanti coi tempi – nello stile, nella narrazione dai toni gialli, nella disamina dell’omertà mafiosa – ma che al contempo portava ancora su di sé il retaggio di un vecchio cinema, quello di Pietro Germi (In nome della legge), del primo Elio Petri (A ciascuno il suo, sempre tratto da Sciascia), o del primo Francesco Rosi (Salvatore Giuliano e Le mani sulla città). Si tratta cioè di un proto-poliziesco basato su uno sguardo umanista, anti-spettacolare e persino neorealista per certi versi: ci troviamo in un crime ante litteram dove l’azione è azzerata, un film che è quasi un western moderno tutto ambientato in un piccolo paese di provincia, in una Sicilia antica e matriarcale, eppure già corrotta.

Lo stile di Damiani cambia radicalmente proprio con la Confessione, un film di estrema importanza non solo nella sua filmografia, ma anche nella storia del cinema italiano, perché sancisce la nascita di un genere nuovo e destinato a fare scuola. Un cinema che è poliziesco ma non ancora “poliziottesco”, cioè che non è puro intrattenimento ma soprattutto “discorso” e denuncia, addirittura antecedente di un anno a quello che è convenzionalmente indicato come il primo film poliziesco italiano, La polizia ringrazia di Stefano Vanzina. Damiani si introduce di prepotenza nel genere, svecchiando improvvisamente il crime nostrano e portando in scena al contempo un nuovo modo di fare cinema politico, con uno stile profondamente innovativo: introduce sequenze d’azione girate e montate con grande enfasi (misurate nella quantità ma di qualità elevatissima), imprime un ritmo spettacolare fatto di dialoghi taglienti e montaggio serrato, e non si fa remore a mostrare la violenza.

Muovendosi in tal senso, cambia innanzitutto ambientazione: non più la Sicilia provinciale e arcaica, ma la Palermo nera dei primi anni Settanta, quando i tentacoli della Piovra si erano già allungati sulle maglie del tessuto sociale, penetrandovi fino all’osso. E ha la geniale intuizione di mettere in scena una partita a tre – fra il poliziotto, il mafioso e il magistrato – dando così il via a una lucida e impietosa messa in scena della sfiducia che serpeggia fra le diverse istituzioni dello Stato. Se il boss della Mafia (Luciano Catenacci, accreditato con lo pseudonimo di Luciano Lorcas) è il motore da cui tutto ha inizio, al commissario e al procuratore danno corpo due attori di prim’ordine, volti noti non solo del poliziesco ma anche del cinema italiano e internazionale: Martin Balsam (che tornerà a lavorare con Damiani ne L’avvertimento, un film per certi versi speculare a questo) e Franco Nero (già protagonista de Il giorno della civetta), i due veri protagonisti che giganteggiano in una gara di bravura alla pari.

Damiani ingrana subito la marcia, e già nei primi minuti fornisce una prova di come si gira una scena d’azione, con uno stile secco e brutale che in Italia non aveva precedenti, e che è degno di registi americani coevi quali Don Siegel e William Friedkin: la macchina da presa segue Adolfo Lastretti mentre prepara il suo piano omicida, poi quando entra nell’ufficio di Lomunno travestito da poliziotto e con un mitra nascosto, indugia (in modo propedeutico alla tensione) sui primi piani, sui dettagli dell’arma, sui campi medi dell’ambiente, infine fa deflagrare all’improvviso la forsennata sparatoria che il killer ingaggia coi tre sgherri del boss, dove tutti trovano la morte. Uno stile fatto di inquadrature rapide, montate in modo serrato (ma non forsennato come negli action di oggi), con la musica preparatoria che lascia poi spazio solo alle immagini e al crepitare dei mitra.

Il cinema di Damiani è spettacolare ma misurato, non è l’exploitation (in senso buono) di un Lenzi o di un Castellari, per cui l’azione e la violenza sono funzionali alla messa in scena di un disegno più complesso: un mosaico a tinte fosche sulla Mafia e sui rapporti con la politica e l’economia, uno spietato j’accuse sulla corruzione, una lucidissima disamina sui meccanismi della speculazione edilizia degna de Le mani sulla città (basti pensare al dialogo fra Balsam e Nero seduti al ristorante). Un mosaico poliziesco fatto di dialoghi scolpiti nel marmo (tratto distintivo del suo cinema), che tocca vette altissime per esempio nel discorso di Catenacci quando definisce il poliziotto “ubriaco di giustizia”, nella rievocazione della vicenda del sindacalista Rizzo (Giancarlo Prete), e soprattutto nel durissimo confronto in montagna fra il commissario e il magistrato, quando ciascuno espone la sua idea di giustizia e accusa l’altro di corruzione senza sapere che sono entrambi in buona fede – un meccanismo che tornerà similarmente ne L’avvertimento fra Giuliano Gemma e lo stesso Balsam.

In mezzo ai dialoghi, mentre invita lo spettatore alla riflessione, Damiani lo intrattiene mettendo in scena la sparatoria iniziale, auto della polizia che corrono in città a sirene spiegate, episodi corollari, momenti di lavoro in Questura ed esplosioni di violenza: l’uccisione del sindacalista a fucilate, il bambino testimone lanciato dalla rupe (ripresi da fatti storici), la donna del boss (Marilù Tolo) uccisa e sepolta nel cemento, l’omicidio di Lomunno per mano di Bonavia, l’esecuzione del commissario a coltellate in carcere (ambiente che tornerà ne L’istruttoria è chiusa: dimentichi).

Quella che va in scena nella Confessione – sostenuta dalle musiche plumbee e malinconiche di Riz Ortolani – è una lotta donchisciottesca di due paladini della legge contro la Mafia e i suoi agganci politici: da un lato c’è il poliziotto, il durissimo Martin Balsam, disilluso, cinico e fautore di una giustizia sommaria, dall’altro il procuratore, un intenso Franco Nero (in seguito, commissario di ferro nel cinema poliziesco italiano) che ancora crede ciecamente nelle istituzioni e nel corso della giustizia; ma che nell’enigmatica inquadratura finale fa intendere di aver appreso la lezione, apprestandosi a indagare anche un alto magistrato (un sibillino Claudio Gora), sospettato di collusione con la criminalità organizzata.