In un articolo pubblicato online lo scorso 5 luglio, Matteo Bittanti si sofferma sui nuovi modelli distributivi del mercato videoludico. Il titolo del pezzo – “Un Netflix dei videogiochi?” – la dice lunga su quanto anche il mondo dei videogiochi stia cambiando e si stia per forza di cose adeguando alle evoluzioni della rete. D'altronde, stando ad alcuni analisti, entro il 2022 i videogiochi saranno disponibili solo in digitale, con buona pace di quelle vecchie generazioni che ancora amano toccare, rimirare, annusare, collezionare copie fisiche.
Nel calderone del digitale entrano in gioco parecchi ingredienti. C'è appunto la natura stessa del supporto: abbandonati cd, dvd, blu-ray e cartucce, il videogioco ritrova la leggerezza e l'immediatezza del codice binario. Bastano un click e una carta di credito per acquistare un gioco comodamente dal proprio salotto. Da questo punto di vista ci sarebbe da aprire una cospicua parentesi sui costi dei giochi digital, altamente ondivaghi. Possono crollare durante i saldi ma poi risalire e restare stabili per anni, al contrario di quanto accade con la controparte fisica, oggetto spesso di svalutazioni repentine e definitive (prima di entrare nelle mani dei collezionisti). Allontaniamoci subito dalla parentesi.
L'altra variante del digitale riguarda lo streaming. Come si rileva nell’articolo, nei videogame lo streaming è ancora un miraggio: il videogioco ha bisogno di tempi di reazione veloci, non è come un film che se si blocca un secondo… pazienza. Videogiocare in streaming, attraverso piattaforme cloud, non è ancora un'attività affidabile, ma potrebbe sicuramente diventarlo.
C'è poi tutta la partita delle formule in abbonamento che ci riportano al titolo dell'articolo di Bittanti. Lo spunto viene fornito dal servizio Xbox Game Pass, una sorta di Netflix "light" che consente, a fronte di un abbonamento mensile, di giocare a decine e decine di giochi su Xbox One.
Alcuni osservatori, scrive a tal proposito Bittanti, ritengono "che le specificità del medium videoludico rendano il modello dell’abbonamento meno appetibile rispetto a contenuti come film, serie tv e musica. C’è un’intera scuola di pensiero che assimila il videogioco non tanto al cinema o alla tv quanto al romanzo: artefatti autonomi, discreti, sostanzialmente conchiusi, fortemente immersivi, che richiedono un investimento cognitivo e temporale considerevole e non quantificabile a monte. La durata della fruizione, infatti, non dipende solo o tanto dalle caratteristiche del testo, quanto dalla competenza, interesse e coinvolgimento dell’utente. È una delle ragioni per cui i vari servizi di abbonamento all-you-can-read ai libri offerti da Amazon, Scribd o Oyster non hanno a tutt’oggi riscosso grande successo".
Si tratta di un passaggio molto interessante, perché viene messo da parte il tradizionale accostamento tra videogioco e cinema e si rileva piuttosto un'affinità tra videogiochi e letteratura. In un ironico articolo del 2014 avevo ipotizzato che i cinefili fossero pigri. Portare a termine un gioco, si diceva nel 2014, richiede un investimento di tempo (e di abilità) notevole. Il cinefilo, a grandi linee, sa bene che il rito della visione in sala ha una durata contenuta e prevedibile. Comodo guardare un film! Scherzi a parte, i concetti di durata (non quantificabile) e competenza/abilità influenzano indubbiamente l'approccio al testo.
Netflix (sempre sia lodato, beninteso) si basa sui concetti di sovraccarico e illimitatezza. Concetti che oggigiorno vendono benissimo – poter avere tutto, più di quanto ci serva, in qualsiasi momento – ma che forse funzionano maggiormente con testi finiti, circoscritti, quantificabili, come sono appunto i film. Per testi come i videogiochi, così malleabili dal punto di vista della fruizione e legati alle abilità e all'investimento temporale dell'utente, la formula in abbonamento non rischia di essere inconsciamente angosciante? Li vogliamo davvero millemila giochi che possono durare ognuno millemila e più ore, sempre pronti all'uso?
Ci sono serate in cui passo decine e decine di minuti a girovagare su Netflix aggiungendo film alla mia wishlist. Serate che si concludono così, nella pura potenza di ciò che potrei vedere e so già che non vedrò mai. Di fronte al guazzabuglio del tutto e sempre, suggerisce Bittanti, diventa forse più rassicurante, e qualificante, la via della curatela: una selezione a monte, estremamente mirata, consapevole, che possa ridare valore ai singoli testi.
E se fosse infine l’utente, lasciato a se stesso, a cercare la propria via, a recuperare in autonomia l’opera tanto desiderata? In quel caso, il momento della fruizione potrebbe beneficiare dell’impegno investito per arrivare all’obiettivo. Come ai vecchi tempi.