Capita che quando si pensa a New York non venga subito in mente il nome di Sidney Lumet, il cui Uomo del banco dei pegni è oggi sotto la nostra lente. Malgrado gli omaggi postumi e le tante occasioni per rivalutare e ripensare la sua opera, questo regista continua ad essere pigramente un po’ snobbato da chi è troppo impegnato a dispensare patenti di autorialità. Eppure basterebbe la sua vasta produzione, ancorché talvolta discontinua nella qualità, a comprovare – qualora ce ne fosse bisogno – il talento disinvolto e circostanziato di un regista educato, come Robert Altman, alla scuola della “live television” degli anni Cinquanta.
Infallibile direttore d’attori (ovviamente Quinto potere, ma come si fa a non pensare alla memorabile opera prima, La parola ai giurati, o all’esattezza di Assassinio sull’Orient Express e Il verdetto?), a Lumet interessa moltissimo il rapporto di forza che la città instaura con gli uomini che la abitano. Per eterogeneità e rilevanza, allora, è abbastanza impressionante la sua serie di film newyorkesi.
Spicca soprattutto il filone del poliziesco urbano, da Rapina record a New York a Il principe della città passando per gli ormai classici Serpico e Quel pomeriggio di un giorno da cani fino al più tardo Terzo grado, dove lo spazio ostile della città è dominato dalla corruzione, la giustizia latita ed incombono disperate forme di criminalità, sintomi o effetti dell’arrembante crisi economica e sociale. I personaggi di questi film, come pure il portuale di Uno sguardo dal ponte, si ostinano a perseguire ciecamente le proprie ambizioni, provengono da ceti modesti e poco hanno a che fare sia con i concittadini intellettuali di Addio Braverman che con le bestie reaganiane dell’estremo capolavoro Onora il padre e la madre.
Al di là dei risultati, Lumet ha raccontato, sempre con la stessa energia, le mille facce di una città complessa, stratificata, problematica, a cui è intimamente legato. Perfino nel paranoico A prova di errore, la Grande Mela viene letteralmente spazzata via perché il tormentato Presidente Henry Fonda la sacrifica sull’altare della guerra fredda – e della sua vita personale.
E da una guerra è scappato Sol Nazerman (Rod Steiger in un apice della sua recitazione da Metodo, che mancò l’Oscar poi ironicamente ottenuto per lo sceriffo razzista in La calda notte dell’ispettore Tibbs), protagonista de L’uomo del banco dei pegni, film emblematico perché già coacervo delle tensioni del quarantenne regista. Anche qui c’è New York, il quartiere di Harlem nello specifico, e c’è un uomo devastato dal passato, ebreo come Lumet. Sopravvissuto al campo di concentramento, dove ha perso la sua famiglia, Nazerman si è rifugiato in America con i cognati e ha aperto un banco dei pegni, crocevia di personaggi sempre sull’orlo del fallimento. Testimone impotente di fronte alla tragedia, completamente consumato dal dolore, indifferente al malessere della società che l’ha accolto, conduce una vita che sembra non avere più senso.
L’idea forte è nel parallelismo: la violenza tragica del lager e quella urbana della malavita di Harlem, la ferocia dei nazisti e l’insensibilità di Nazerman, il male assoluto e lo squallore della miseria. Materia rischiosa, perfino spericolata, specie laddove ci si addentra in un discorso su Nazerman prima vittima e poi apparente carnefice (lucra sui disgraziati) ma comunque sempre vittima (del suo passato, del capoquartiere nero, del destino). Grazie alle suggestioni estetiche derivate dalla Nouvelle Vague, Lumet sviluppa un discorso fondato sul dramma della memoria, che s’insinua nella narrazione seguendo andamenti involontari, istantanee di ricordi impossibili da dimenticare, frammenti di lontana serenità familiare mai più replicabile.
Utilizza al meglio i contributi del direttore della fotografia Boris Kaufman, il cui splendido bianco e nero è di straziante, grezzo realismo, e del contrappunto jazz di Quincy Jones. In questo modo, riesce a trovare la chiave per mettere in scena il non-rappresentabile dell’Olocausto, peraltro fino a quel momento mai davvero affrontato dal cinema americano, un grande rimosso perfino paradossale in un’industria piena di ebrei. Ché poi Nazerman sia fondamentalmente un usuraio (con tutto ciò che comporta questa professione nella narrazione tipizzata dell’ebreo, da Shylock in poi), personaggio difficilmente apprezzabile ma nei cui confronti, nel terribile finale, è impossibile non provare empatia, rende L’uomo del banco dei pegni un film se non altro parecchio coraggioso.