Nell’autobiografia poetica del figlio prediletto di Little Italy c’è il rock ‘n’ roll che accelera la scena narrativizzandola, il soul che la ammorbidisce con la sua linea melodica intimista e profonda, la tradizione lirica italiana che drammatizza il tessuto narrativo “sdrammatizzandone” i toni da melodramma noir.
E poi c’è il montaggio di Sid Levin che cuce insieme i pezzi della realistica e dionisiaca “machine Scorsese” in un nostalgico affresco umano tra sacro e profano. Domenica in chiesa, lunedì all’inferno, mai titolo italiano è stato più azzeccato per definire le storie semiserie dei delinquentelli della piccola e notturna Italy, pronti ad essere iniziati ai violenti rituali della criminalità organizzata tra una tangente riscossa e un cero acceso alla Vergine.
Attingendo alla materia autobiografica della propria vita nel ghetto italiano, Scorsese trasforma l’inquieto disincanto delle backstreets in anti-inferno in cui l’azione, sottolineata dai contrappunti musicali, è conflitto fisico e mentale. La dolce Be My Baby di Phil Spector intonata dalle Ronettes apre Mean Streets sottolineando il contrasto acceso tra la vita irrequieta di Charlie (Harvey Keitel) e dei “ragazzi” – vero status symbol in ogni film di Scorsese – e le loro velleità misticheggianti da cattolici fai da te.
Catturati da una macchina da presa che imita le frenesie psicogene dello scalcinato team di arrampicatori “criminali”, i ragazzi scalpitano per diventare boss o semplici portaborse del capo, fanno a botte sulle note di Jumpin’ Jack Flash e Tell Me dei Rolling Stones restituendo quella cacofonia generale che, secondo il regista, era il naturale suono di Elizabeth Street, luogo insieme familiare e sconosciuto.
Indulgere empaticamente con lo spettacolo della strada e far affiorare quel sentimento acceso tra colpa e utopistica redenzione è la missione di Scorsese, il flâneur newyorchese per eccellenza. Cantore della provincia degenere e rapsodo di un’epica popolare, riscrive le gesta di piccoli e goffi ladruncoli fagocitati dalla strada, fluidificando la scena nella (ri)costruzione parossistica dello scontro a fuoco e in quello verbale. L’everyman scorsesiano strepita nella New York del 1973, ama ingenuamente e vuole bene ai compari in modo virile e per questo anche sciocco, scriteriato.
Tra leggerezza e gravitas Mean Streets è uno stream of consciousness in cui le immagini, contrappuntate dai brani musicali popolari e quotidiani, costruiscono un umanesimo muscolare e melanconico. Uno spettacolare “portrait of a scoundrel as a young man”.