Ombre (1959) è il primo film di John Cassavetes, a venir coinvolti nelle riprese sono gli attori del laboratorio di recitazione fondato assieme all’amico Burt Lane (padre di Diane Lane), creato in contrapposizione all’Actors Studio, il risultato finale è il frutto degli insegnamenti di questa scuola sperimentale che crede nell’improvvisazione sulla quale fonda il suo metodo, a conferma di tutto questo la frase chiarificatrice che chiude la pellicola: “The film you have just seen was an improvisation”.

Celebre la diatriba che vede contrapporsi Jonas Mekas e il regista. Mekas acclama la prima versione di Ombre in 16 mm, per poi stroncare i successivi ampliamenti accusandolo di aver reso la pellicola commerciale, modificandone quasi i tre quarti e ingrandendola a 35 mm; Cassavetes si difende sostenendo di aver solo migliorato il film eliminandone i difetti provocati dall’innamoramento per la cinepresa tipico dell’opera prima.

Cassavetes riconosce di essere stato influenzato dal neorealismo, pellicole come La terra trema, I vitelloni, Umberto D. e Bellissima, opere di registi che “non avevano paura della realtà: la guardavano direttamente in faccia”, a tal proposito va evidenziato ogni riferimento alla poetica del pedinamento di Zavattini che Cassavetes definisce “il più grande sceneggiatore mai vissuto”. (Ray Carney, John Cassavetes. Un’autobiografia postuma, 2014)

Lelia (Lelia Goldoni), Hugh (Hugh Hurd) e Ben (Ben Carruthers) rincorrono e assecondano le proprie ambizioni per le strade e i locali di New York, lo spettatore li segue immergendosi nelle atmosfere notturne rischiarate dalle insegne luminose e dal chiaro di luna suggerito dal titolo della locandina del film di Roger Vadim (Gli amanti del chiaro di luna) sulla quale Lelia si sofferma a lungo, incantata dall’immagine seducente e disinvolta di Brigitte Bardot. Il biancore lunare lo si ritrova anche sul volto di Lelia, il colore della pelle diviene sintomo di inadeguatezza, lo stesso accade a Ben che al contrario di Hugh non vive con orgoglio la sua condizione di afroamericano.

Self-Portrait in Three Colors è il titolo allusivo che doveva avere la partitura scritta da Charles Mingus per Cassavetes, le tre tonalità a cui si riferisce sono le diverse sfumature della carnagione dei tre fratelli, e si potrebbe aggiungere dello stesso Mingus. La difficile accettazione delle origini e della propria identità viene espressa sarcasticamente da Ben recitando una popolare filastrocca: “Mary had a little lamb, its fleece was white as snow. Everywhere that Mary went, the lamb was sure to go”.

Charles Mingus e il sax di Shafi Hadi amplificano il suono dei passi dei protagonisti, ciò che li accomuna è la libertà dell’improvvisazione sia musicale che della recitazione; questo forsennato girovagare, interrotto da brevi soste nell’appartamento dei tre fratelli, li conduce verso mete casuali e vede attraverso il commento musicale, come in Ascensore per il patibolo (1958), l’espressione e l’interpretazione della psicologia dei personaggi. Non è secondario ricordare l’iniziale scelta di Miles Davis per la realizzazione della colonna sonora di Ombre.

Queste esistenze beat, labili e vacillanti, che mai interrompono la loro corsa concitata disseminata da risse e approcci fallimentari, vengono ritratte da Cassavetes restituendo allo spettatore la gestualità inquieta di corpi percorsi e sopraffatti da un vortice emotivo. Lelia, Hugh e Ben mantengono i propri nomi di battesimo, il regista trasfigura i suoi attori favorendo un’assimilazione totale della parte, devono studiare la realtà messa in scena con la finzione del cinema; ascoltare musica jazz, bere una birra e abbordare ragazze fa parte della formazione, devono diventare “le persone che stavano recitando. Avevano qualcosa da dire e lo prendevano sul serio”.

Al contrario del metodo dell’Actors Studio viene vietato loro di parlare del proprio personaggio ai colleghi, questa mancanza di dialogo favorisce l’integrità del proprio ruolo, devono calarsi nei nuovi panni e muoversi con disinvoltura, ignorare le scelte dei compagni consolida le potenzialità dell’improvvisazione compensando l’assenza di una sceneggiatura predefinita. Come in una tela dipinta a più mani, spiega Cassavetes, “cominci con delle idee, qualcosa di tuo; ogni tanto qualcuno aggiunge qualcosa di diverso e il dipinto cambia un po’”, le differenti pennellate creano “tante sfaccettature quanti sono gli attori; l’azione è a tutto tondo – è la creazione comunitaria di diverse immaginazioni. L’unità stilistica prosciuga l’umanità di un testo”.

L’autenticità della vita nella recitazione si esprime perfettamente attraverso il percorso febbricitante di Ben e alcuni amici in visita allo Sculture Garden del MoMA. “A place for a bunch of sexless woman who don’t have any love in their life. A lot of big deal professors. A lot of creeps trying to show off how much they know”, così viene definito lo spazio in cui si svolge la gita irriverente che schernisce le mute e incomprensibili testimonianze di una cultura distante verso la quale indirizzare la propria ribellione, una scultura può diventare poco più di una decorazione per un provocatorio biglietto natalizio. La passeggiata si trasforma in un violento battibecco, i protagonisti si interrogano svogliatamente sul significato di quelle opere rinfacciandosi a vicenda la loro inutile presenza in quel luogo, ed è di fronte al ritratto di Balzac di Auguste Rodin (quell’ombra immortalata più volte da Edward Steichen) che il rancore si fa insistente e irragionevole.

Cassavetes racconta che le Ombre del titolo non sono state suggerite dalla volontà di fare un film che affrontasse le questioni razziali ma la scelta deriva dai disegni realizzati da uno degli attori che “ingannava il tempo facendo un ritratto a carboncino di alcuni colleghi, e improvvisamente lo intitolò Ombre”. Come silhouette dai profili indistinti Leila, Hugh e Ben divengono tracce di un’esistenza precaria e confusa, ombre sfuggenti in cerca di una necessaria affermazione di sé, della propria individualità. Le ombre hanno origine da uno sdoppiamento, sono proiezioni di corpi, vere e proprie impronte in divenire nelle quali ritrovare impressa l’unicità dell’attore, come in un ritratto a carboncino in cui si riconoscono i lineamenti del modello.