Rosemary Woodhouse (Mia Farrow) è una mogliettina inibita e sospirosa, subalterna alle mire carrieriste del marito Guy (John Cassavetes), attore teatrale di scarso successo. L’arrivo dei due nel nuovo appartamento newyorchese, il cui interno ricorda vagamente quello di Repulsion, somiglia all’ingenuo idillio di una telenovela. La casa sembra perfetta per la coppia di innamorati, in procinto di concepire il primo figlio, almeno fino all’incontro con gli invadenti vicini di casa, gli anziani coniugi Minni e Roman Castevet (Ruth Gordon e Sydney Blackmer). Membri di una secolare confraternita di satanisti, i Castevet stringono un patto con Guy per portare la sua carriera alle stelle.

Da qui in poi la storia si dipana in un film horror, ma senza horror, come se lo stesso Polanski, alla sua prima opera hollywoodiana, non avesse veramente fede nel terrore che crea. Se in Per favore… non mordermi sul collo la paura era infantile e parodistica, in Rosemary’s Baby, spinto dal suo profondo ateismo, Polanski rifiuta di mettere in scena qualsiasi dimensione mistica o sovrannaturale, basando l’intera narrazione sul tema dell’ambiguità.

Come nel successivo L’inquilino del terzo piano, in cui i neighbors tornano ad essere l’allegoria di un corpo sociale minaccioso, lo spettatore non comprende mai a pieno se la protagonista sia realmente vittima di un complotto da parte della comunità, o di allucinazioni demoniache, nate dall’incapacità di accettare il proprio ruolo di moglie e madre.

Da un lato abbiamo quindi l’integrazione coatta di una ragazza di campagna nella grande città, dove si è spesso soli anche se circondati da nostri simili, dall’altra il rapporto di attrazione-repulsione verso la maternità, dovuto forse alla rigida educazione cattolica della protagonista. Come il feto deforme di Ereserhead, il bambino demoniaco di Rosemary – che però non vediamo mai – è l’incubo soggettivo della protagonista, piccolo borghese repressa, che rifiuta la genitorialità. Minaccia oggettivamente subita o deriva paranoica pre-parto?

Polanski insinua il dubbio nello spettatore fino all’ultima inquadratura:”Bisogna confondere – dice in un intervista ai Cahiers du Cinéma – è questo il principio del dramma. Se volete rendere un libro o un film interessante, non è necessario essere troppo espliciti”. Alla luce di questa ambiguità strutturale sembra forzata anche qualsiasi lettura politica del film e del finale; ricordiamoci che siamo nel 1968 – anche se il film è ambientato a cavallo fra il ’65 e il ’66 – e molti critici dell’epoca tentarono la strada dell’interpretazione “militante” alla luce della rivoluzione culturale.

Se fila la lettura della vulnerabile Rosemary – l’opposto della bella e castrante Teresa di Cul de sac – come specchio dell’insulso perbenismo piccolo-borghese, qualsiasi interpretazione politica dei coniugi Castevet risoluta insolubilmente contraddittoria. Come un lucido rivoluzionario, il vecchio Roman  prospetta la salvezza degli afflitti nel nuovo regno di Satana, ma non disdegna la politica clientelare, da sempre strumento di potenti e sfruttatori, per favorire l’arrivismo di Guy, pronto a sacrificare suo figlio alla confraternita.

Se c’è un regista lontano dalle lotte operaie e della contestazione giovanile quello è proprio Polanski. “La politica non è solo una cosa triste. è assurda (…) Per impegnarsi bisogna avere delle convinzioni. E io diffido delle convinzioni”. L’ambiguità strutturale riflette quindi la profonda ambiguità ideologica del suo Autore, anarchico un po’ naif (“essere anarchici è salutare”) impegnato a idealizzare l’Eden borghese degli Stati Uniti anche dopo il tragico omicidio della moglie Sharon Tate (“Amo l’America. L’America è un’esperienza, nella storia dell’umanità, forse l’unica che abbia funzionato”).

Rosemary’s Baby è un horror unico del suo genere, lontano anni luce dalla suspense hitchcockiana, dove il bene trionfa quasi sempre sul male ristabilendo l’ordine sociale costituito. Il luogo del male non è una casa nel bosco, ma un palazzo signorile e i mostri che lo abitano dei buffi anziani della middleclass newyorchese. La minaccia è tale perché nega allo spettatore il conforto della comprensione per tutta la durata del film, fino a un epilogo in equilibrio fra salvezza e dannazione, allucinazione e realtà, sogno e vita.