Per ricordare a dovere Nicolas Roeg, da poco scomparso, proponiamo un'analisi di A Venezia… un dicembre rosso shocking. Oggetto alieno e sfuggente nel panorama horror degli anni Settanta, il film è il manifesto visionario di Nicolas Roeg e sintetizza un percorso sperimentale che il regista aveva iniziato già nel 1970 con Sadismo, dopo aver svelato i segreti del montaggio disgregante e aver incrociato, in qualità di primo operatore di macchina, il gotico di Roger Corman in La Maschera della morte rossa. Tratto dal racconto di Daphne du Maurier Non voltarti e sceneggiato da Allan Scott e Chris Bryant, A Venezia… un dicembre rosso shocking rompe le convenzioni sull’occulto tipici dei film di quegli anni, indagando le pieghe dell’inconscio dei due protagonisti in una Venezia rarefatta e spettrale, le cui calli sono buie arterie dell’anima e i cui anfratti oscuri pullulano di visioni ottenebranti “Beyond the fragile geometry of space”.

Questo, il titolo del libro scritto da John Baxter (Donald Shuterland) inquadrato di sfuggita nelle prime sequenze a montaggio alternato, è il segreto di un viaggio escheriano senza meta, privo di spiegazioni logiche e avulso dalla realtà spazio-temporale rappresentata. Ciò che interessa al regista è indicare la direzione del tragitto, suggerire una prospettiva dell’orrore che fuoriesca dalle logiche semantiche del montaggio e si configuri come la visione che sta a metà strada fra il visum  (l’apparizione) e la visio anticipatrice di eventi futuri (il sogno premonitore): uno spavento prismaticamente orientato, una lenta catabasi oltre la ragione e dentro l’allucinazione che coincide col tentativo di superare la perdita della piccola Christine subita da John e Laura.

Roeg non spiega e non contestualizza, si limita ad evocare con l’ausilio degli stereotipi occulti un mosaico di orrori catturato da un occhio (il suo) vagante senza corpo, svolazzante su chiese in desolata penombra, intento a cogliere dissonanze figurative e a rincorrere ellissi e scarti logici in una narrazione che, in un fluire ininterrotto, ricostruisce affinità elettive tra stranieri in terra straniera; John e Laura, inglesi finiti a Venezia per lavoro, sono legati a doppio filo ad una città estranea e ad agenti sconosciuti del soprannaturale che li manipolano creando squarci magici in laguna.

Il film, tra “falsi” doppi e una costellazione di topoi esoterici in funzione di pura rappresentazione filmica, opera trasmutazioni continue confondendo lo spettatore, rendendo indistinguibile la realtà dalla finzione illusoria come nelle sequenze iniziali, quando John, guardando sulla diapositiva del proiettore, vede una figura incappucciata simile a quella della figlia in impermeabile rosso che corre nel bosco e non si scompone, perché lo stupore è solo per lo spettatore , investito dalla sinfonia straniante di immagini orchestrata dal regista. Il film è espressione della lucida follia di John e Laura che, incapaci di sostituire l’oggetto freudiano del lutto, lo inseguono senza sosta in una psicosi allucinata e desiderante. La loro è una continua evocazione dell’oggetto perduto in un delirio schizofrenico di immagini che ingoiano il proprio riflesso e appaiono “scomparendo” lungo una spirale d’orrore senza fine.